Nell’articolo di cui di seguito riportiamo un estratto, pubblicato sul periodico L’Universale, Alberto Luchini, disquisendo sull’uso degli aggettivi “spiritualista” e “spiritualistico” in riferimento alla particolare visione del mondo che avrebbe dovuto caratterizzare il fascismo, passa in rassegna una serie di posizioni spiritualiste e ne precisa la compatibilità con il fascismo. Non può quindi evitare di confrontarsi anche con le idee espresse da Evola nella sua opera Rivolta contro il mondo moderno. “Ammirevoli fin dove e finché appunto ci paiono da rispettarsi: al di là di quel segno c’è ancora spazio illimitato per il più radicale e cordiale dissenso”.
Per capire la Weltanschauung del pubblicista e fino a che punto le idee di Evola potessero sembrare condivisibili da parte sua, dobbiamo considerare che l’articolo risale al 1934, periodo in cui ancora non si era manifestato l’impegno unanime da parte dei due nella questione della razza. Nonostante quindi che i due si conoscessero, una vera sintesi fra il pensiero di Evola e quello di Luchini non si era evidentemente verificata. Nel ’34 Luchini infatti aveva da poco preso le distanze da strapaese e dall’irrazionalismo ed aveva aderito al Manifesto realista di Berto Ricci, come ricorda nell’articolo in esame: “La posizione di Ricci, e di tutti noi, testimoniata dal Manifesto realista, non può per gli onesti prestarsi a equivoci”. Per capire il punto di vista di Luchini e su quali aspetti il suo pensiero divergesse da quello di Evola, dobbiamo quindi spendere qualche parola a proposito del manifesto in questione. Il manifesto prendeva atto innanzitutto della crisi della civiltà occidentale che per i firmatari era da rinvenirsi nella decadenza del nazionalismo, del capitalismo e del cristianesimo (ma più in generale del sentimento religioso). Auspicava poi una rinascita che non si sarebbe realizzata in altro modo che oltre il sistema invece che nel sistema, superando cioè il nazionalismo con la rivoluzione imperiale fascista, il capitalismo con il corporativismo (e la concezione della proprietà privata in funzione sociale), il cattolicesimo con il contemperarsi dei due elementi tradizionali della storia italiana – ossia paganesimo mediterraneo e il cristianesimo delle origini – fino a che una nuova forma non li avrebbe riassunti, oppure con l‘avvento di nuove energie spirituali sulla terra anche estranee al cristianesimo.
Concludeva affermando che al di sopra delle tendenze confessionali degli individui avrebbe dovuto porsi l’etica fascista, alla quale anche gli interessi privati economici avrebbero dovuto essere subordinati. In ogni caso, ed è ciò che maggiormente ci interessa in questa sede, il problema religioso non si sarebbe risolto con filosofie o con idoli idealistici. In altre parole, né l’uno né gli altri vengono considerati abbastanza forti da sostituirsi alle religioni in quanto non sono in grado di guidare le masse e rendere il cittadino non più suddito di uno stato ma “milite di una rivoluzione in atto e costruttore di impero”[1]. Altro aspetto che rileva è il problema della gerarchia, presente quindi sia in Evola sia nei firmatari del già citato manifesto. Tuttavia il problema nelle pagine de L’Universale non trova una soluzione positiva. Si avverte sì “l’incancellabile necessità politica e umana” delle aristocrazie, ma non vi si trova uno studio veramente attento e approfondito delle cause della decadenza della società gerarchica antecedente il fascismo, bensì la semplice constatazione che in merito alla formazione delle aristocrazie il criterio ereditario aveva fatto il suo tempo, stessa sorte per l’elettivo e quello per censo, frutto di una società borghese e liberale. Nessuna risposta quindi in merito ai criteri che avrebbero dovuto ispirare la nascita delle nuove aristocrazie e a come questi si sarebbero conciliati con il sistema corporativo appena avviatosi in quegli anni. Le idee che invece vengono affermate nelle pagine della rivista Nobiltà della stirpe, che aveva anche Evola fra i suoi collaboratori, vengono bollate dal gruppo de L’Universale come “semplicismi archeologici che lasciano il tempo che trovano”. Anche queste, come le filosofie e soprattutto l’idealismo, vengono considerate interessanti e degne di attenzione, ma sempre in quanto oggetto di interesse personale dei lettori e non come parte integrante della rivoluzione che avrebbe reso i cittadini militi e costruttori di impero.
Proprio questo è l’errore che secondo Evola porta fuori strada il gruppo de L’Universale: esso non ha la capacità di “sbarazzarsi della preoccupazione di prender troppo sul serio quanto ha relazione appunto con la civiltà moderna”[2] specialmente nel momento in cui si tratta di indicare dei principi, dare una risposta concreta dopo le critiche, pur legittime s’intende, alla decadenza del mondo contemporaneo. Nello stesso articolo pubblicato su Il Regime Fascista, in cui Evola commenta l’intero manifesto realista, egli afferma di condividere con i firmatari l’idea che la rivoluzione fascista sarebbe l’inizio di una “rivoluzione imperiale, centro di una immanente civiltà non più caratteristica di un continente o di una famiglia di popoli, ma universale”. Senonché analizzando i punti principali del manifesto vi rinviene alcuni errori e imprecisioni soprattutto storiche, come ad esempio “il voler chiamare mediterraneo il principio della personalità anziché chiamarlo ariano, indogermanico o romano-germanico e il veder nella Rinascenza la ripresa – invece che la contraffazione laica e umanistica – di tale principio”. Evola infatti vede nel Rinascimento non una ripresa dei valori eroici dell’antichità in parte sopravvissuti nel medioevo di Dante e dell’impero, ma solo una contraffazione degli stessi nel senso che il centro della civiltà, come ebbe a ribadire in Carattere – rassegna del lavoro italiano, durante il Rinascimento si spostò dai valori eroici ed ascetici alle arti e le lettere, sì da arrivare al prevalere dell’elemento deteriore presente nel mediterraneo ossia l’uomo afroditico o prometeico, individualista ed “insofferente di ogni superiore principio di ordine”.
Proseguendo nel suo commento egli ritiene in ogni caso giusto contrapporre l’ideale della personalità al collettivismo e alla società standardizzata, internazionalistica e meccanica. Ed è proprio su questo punto che fra l’altro può aprirsi la strada per una eventuale sintesi fra il pensiero di Evola e quello del gruppo del citato periodico: la comune avversione sia per il sistema collettivistico di tipo comunista, sia per il materialista mondo anglosassone. Il filosofo tradizionalista lamenta però che il tipo dell’uomo nuovo, destinato ad affermarsi supernazionalmente e a edificare un impero in grado di opporsi a quelle due forze, resti nel manifesto sostanzialmente indeterminato nel suo contenuto e che anzi sia sbagliato associare la Monarchia di Dante al Concilio di Mazzini come riferimenti, entrambi, del corrispondente “tipo” politico-statale dell’uomo nuovo. Questo perché Mazzini appare agli occhi di Evola come colui che maggiormente rappresentò quell’aspetto ideologico del Risorgimento essenzialmente antitradizionale, sovversivo e lesivo dei valori autenticamente spirituali dell’Europa.
Il contrasto si fa ancora più marcato nel considerare la questione religiosa. Se i firmatari ammettono nel manifesto che “la fede religiosa è un fatto individuale” e che “la libertà di coscienza potenzialmente acquisita dai popoli con la rivoluzione francese (…) non può né deve essere soppressa senza un ritorno alla barbarie”, questo non può che suscitare la reazione di Evola che al contrario considera proprio la “libertà di coscienza” come barbarie in quanto “superstizione moderna di marca eretico-giacobina” e vi oppone piuttosto una “volontà di gerarchia anche sul piano dello spirito”. Occorreva inoltre per il filosofo essere meno vaghi nell’indicare ciò che realisticamente appunto, ma superando la mera speculazione, lo spirito avrebbe può significare per l’uomo nuovo.
Pur concludendo che l’attività del gruppo era lodevole per lo sforzo rivolto verso una visione del fascismo come nuova idea-forza supernazionale, ne prende quindi le distanze, oltretutto ponendosi fra coloro che vengono bollati da Ricci come “nostalgici di un ordine feudale ucciso dai Comuni italiani e dal Rinascimento italiano”. Qui la distanza da L’Universale è evidente. Proprio la civiltà dei Comuni, borghese e plebea, criticata da Dante perché antimperiale, viene nuovamente criticata da Evola che la considera, al pari del Rinascimento, un elemento antitradizionale. Il problema principale del manifesto realista per Evola è quindi l’eccessiva influenza che una certa narrazione storica esercitava sul gruppo de L’Universale, accompagnata poi dai “tanti elementi di passionalità o di istintività legata alla terra e al sangue”[3] che avrebbero dovuto essere mortificati e quindi superati per “infrangere gli orizzonti angusti e materializzati dell’uomo ultimo, sì da conseguire la sensazione di ciò che ha veramente potenza romana di universalità”.
A leggere le pagine de L’Universale non si può non notare la presenza di quelle contraddizioni che anche Evola vi individuava. È bene anzi sottolinearle perché in parte rimandano alla personalità di Alberto Luchini. Se Evola, pur partecipando anche in maniera attiva agli avvenimenti del suo tempo, attraversa i vari momenti della sua vita sempre mantenendosi nel solco della Tradizione, pur passando dall’esperienza dadaista attraverso quella dell’iniziazione in Ur e Krur, fino ad arrivare agli scritti politici di La Torre, esperienze diverse segnarono la vita e la personalità di Luchini. La sua vita risentì molto delle tradizioni familiari le quali naturalmente portarono anche lui al fronte antiaustriaco nel 1916, dove venne ferito. Anch’egli, come gran parte della sua famiglia, fu coinvolto in prima persona nelle vicende politiche del suo tempo ricoprendo anche incarichi istituzionali: fu direttore dell’Istituto Fascista di Cultura di Firenze e poi dell’Ufficio Studi e Propaganda della Razza del Ministero della Cultura popolare. Per tale ragione spesso compì diversi viaggi all’estero, come ad esempio quelli che lo portarono in Scandinavia, in particolare in Finlandia, in rappresentanza dei CAUR (Comitati d’Azione per l’Universalità di Roma). Lì ebbe il compito, assieme ad altri ispettori dei Comitati d’Azione, di instaurare dei legami con le personalità di spicco sia dei partiti di ispirazione nazionalista e conservatrice, che in alcuni casi avevano espressamente affermato di ispirarsi al fascismo, sia del mondo della cultura in genere, al fine di arginare la crescente influenza della Germania in quelle zone. Nonostante il suo impegno all’estero in quelle operazioni di diplomazia culturale, il suo centro spirituale rimase sempre il suo paese, Radicofani, al quale dedicò alche la sua ultima monografia, concepita comeun testamento spirituale celato dietro una descrizione metafisica del luogo. Ciò era dovuto al fatto che proprio nel piccolo centro toscano la madre di Alberto possedeva una pensione d’élite, denominata Vertumno in onore del dio etrusco che nell’antichità ebbe un culto particolare in quella zona. Presso la pensione erano soliti riunirsi i personaggi più significativi del primo dopoguerra. Fra questi non vi erano solo politici ma anche artisti (come la stessa proprietaria della pensione, anche lei pittrice), letterati, critici d’arte. Fra gli altri, ospiti abituali erano Giorgio de Chirico, Ottone Rosai, Curzio Malaparte, Mino Maccari, Ardengo Soffici, Aniceto del Massa, Giuseppe Bottai, Gabriele d’Annunzio, Leon Kochnitzky, Henry Furst. Accadde quindi che tutti costoro ebbero una grande influenza su Alberto che in molti casi instaurò con loro rapporti d’amicizia che mantenne per tutta la vita e certamente fecero in modo che la sua linea di pensiero risultasse molto meno coerente rispetto a quella di Evola nel mantenersi nel solco della Tradizione. Così se nei primi anni ’20 Luchini si orienta su posizioni nazionaliste, già pochi anni dopo aderirà al movimento strapaese per poi, grazie in particolare all’amicizia con Berto Ricci, sottoscrivere, come detto, il manifesto realista di questi condividendo in gran parte le idee de L’Universale. Allo stesso tempo continuerà a scrivere su altri periodici quali Il Selvaggio, il Tevere, L’Italia Letteraria, Gerarchia, Circoli, Il Bargello, Antieuropa, tutti diretti da suoi intimi amici ed espressione di diverse correnti interne al fascismo. Si interessò in seguito alle religioni orientali e nel 1942 pubblicò, insieme ad Ezra Pound l’opera Confucio, Ta S’Eu Dai Gaku, studio integrale. Infine, pur conoscendo da tempo l’opera di Steiner, fu grazie all’amicizia con Massimo Scaligero e Giovanni Colazza che negli ultimi anni della sua vita si avvicinò all’antroposofia, di cui rimase seguace fino alla morte. Le varie contraddizioni che Evola identifica nel manifesto de L’Universale sono quindi, almeno in parte, riconducibili ad Alberto e al suo contributo alla rivista; ma sarebbe difficile restituire un ritratto completo della sua personalità senza un breve accenno ad un personaggio della sua famiglia che, sebbene orientato su posizioni opposte a quelle di Alberto, viene da questi più volte citato con una certa ammirazione. Si tratta di suo nonno, Odoardo Luchini, morto prematuramente nel 1906 all’età di sessantuno anni. Garibaldino e massone (iscritto alla loggia “Concordia” di Firenze fino agli anni ’70 dell’800), si allontanò successivamente dalla massoneria mettendosi “in sonno”. All’inizio del Novecento decise comunque di ricreare, in un terreno non distante dalla futura pensione Vertumno, un bosco, definito “romantico esoterico” dallo stesso Alberto[4], con lo scopo di renderlo un vero e proprio percorso iniziatico. Inizialmente il bosco era riservato a pochi ospiti eletti, in seguito poté essere visitato dalla cittadinanza in occasione di solennità patriottiche. Nel trentennio in cui la pensione era fruibile (dal ’12 al ’42) anche il bosco attrasse parecchi visitatori ed esoteristi che soggiornavano alla Vertumno. Pertanto Luchini, a differenza di Evola, non riuscì mai ad allontanarsi del tutto da una certa storiografia che faceva proprie le istanze risorgimentali e ciò era dovuto senz’altro alle sue frequentazioni presso la sopracitata pensione e, in secondo luogo, all’ ammirazione che nutriva per la propria famiglia e la partecipazione di questa agli eventi che portarono all’unificazione nazionale. In quest’ottica Luchini si adoperò sempre per una conciliazione, laddove possibile, fra le idee dei vari ospiti della Vertumno e per creare, in un clima di collaborazione anche fra quei fascisti che Evola non vedeva ancora elevarsi al di sopra di particolari credenze o speculazioni, l’humus ideale per la nascita delle nuove gerarchie.
Se quindi Evola vedeva nel fascismo la “rivoluzione” che avrebbe dovuto riportare l’Europa dalle rovine ad un riassetto di tipo tradizionale e gerarchico ed era risoluto nel prendere le distanze da tutto ciò che, anche internamente al fascismo, riteneva incompatibile con tale visione o anti aristocratico, Luchini si adoperò principalmente per una reinterpretazione della storia d’Italia come un susseguirsi di tappe verso la rivoluzione fascista, la quale sola per lui avrebbe saputo realizzare il tipo di società tradizionale auspicato da entrambi.
Naturalmente, al pari di Evola, egli criticava la massoneria in sé: era convinto che il contributo di questa alla realizzazione dell’unità nazionale fosse stato in realtà minimo e, dal punto di vista politico, la vedeva come forza dissolutrice e strumento della potenza anglosassone ostile all’Italia. Tuttavia il punto di arrivo per lui era l’Italia in quanto essa stessa principio spirituale, perciò fra coloro che nelle diverse epoche storiche si erano fatti promotori di tale principio includeva anche singole personalità, proprio come Garibaldi, Odoardo o lo stesso Ricci, che rimanevano estranee alla visione più strettamente tradizionalista di Evola.
Alberto Luchini, Presa di posizione spiritualista
(L’Universale, 10 settembre 1934)
La Rivoluzione fascista ha costruito, costruisce, costruirà sul fondamento di roccia della nazione, della sovranità assoluta della nazione. Ma non della nazione come unità pseudoantropologica e antiscientifica, alla tedesco-razzista. Bensì della nazione come Ens realissimum: come realtà delle realtà, trascendente, spirituale, legittimantesi in Dio. Ed è il presupposto religioso della tradizione civile italica e italiana. Quelle tali faccende private, gli altri, [5] se le sbrighino dunque in famiglia. Che d’altronde noialtri e i nostri amici non si sia, no davvero, affetti di melanconie sanfediste, questo sì che sarebbe sciupio si scuse-accuse stare a dimostrarlo. Ci bastano e ci avanzano, come documenti, quei numeri dell’Osservatore Romano dove si ha la condiscendenza di alludere all’Universale, e la bava di rigore, in evenienze simili, giù per le colonne di codesta pubblicazione estera. Né di beatoangelicismo – per mettere in circolazione una parola inventata da Romano Romanelli, proprio al momento opportuno -; ci bastano e ci avanzano la collezione, il maestro occulto e quello palese, i redattori e gli altri duellanti del Frontespizio. Né di più o meno evoliana Rivolta contro il mondo moderno; stimiamo l’ingegno e la preparazione di Evola, di certo seri e, sotto certi aspetti, magari ammirevoli, fin dove e finché, appunto, ci paiono da rispettarsi; al di là di quel segno – la posizione nostra personale in proposito è pubblica da sette anni, e quella di Ricci e di tutti noi, testimoniata dal Manifesto realista e rinfrescata da un accenno dello stesso Ricci nel Popolo d’Italia, non può, per gli onesti, prestarsi a equivoci – c’è ancora spazio illimitato per il più radicale e cordiale dissenso[6].
[1] B. Ricci, Manifesto realista, in L’Universale, 1 gennaio 1933.
[2] J. Evola, Incontri, a proposito di un Manifesto realista, in Regime fascista, 5 febbraio 1933.
[3] Ibidem.
[4] A. Luchini Radicofani, Industria grafica l’Impronta S.p.a. Firenze, luglio 1970.
[5] Si riferisce ai promotori di una conciliazione fra fascismo e ateismo.
[6] Estratto dell’articolo di Luchini Presa di posizione spiritualista, in L’Universale, 10 settembre 1934.