In un libro di cui su queste colonne abbiamo a suo tempo parlato [Il nodo di Gordio, scritto insieme a Carl Schmitt], Ernst Jünger, nel trattare dei rapporti fra spirito orientale e spirito occidentale riferisce un episodio del periodo delle Crociate. Il conte di Champagne s’incontrò col capo degli Ismaeliti mussulmani, il famoso Sheik o Anziano della Montagna, e con lui s’intrattenne sui principi della cavalleria e della religione. Trattando dell’obbedienza, lo Sheik fece cenno ad uno dei suoi cavalieri che montava la guardia al sommo di una muraglia, e questi senza esitare si precipitò nel vuoto sfracellandosi. Chiese allora lo Sheik al conte di Champagne se egli ai suoi cavalieri avrebbe potuto chiedere altrettanto; al che il conte rispose di no.
Per lo Jünger, un simile episodio illustrerebbe l’antitesi fra etica orientale e etica occidentale. Anche nell’ultima guerra – egli dice – vi sono stati uomini che hanno accettato rischi estremi; ma in quanto l’Occidente riconosce i valori della personalità, a nessuno si chiederebbe un simile disprezzo della vita, nemmeno come impegno in un’azione da cui in anticipo si sappia non esservi scampo.
Tutto ciò non è completamente esatto, il problema è complesso e, per quanto questi siano argomenti insoliti per i nostri lettori, pure non sarà forse privo di interesse dedicarvi qualche breve considerazione.
Anzitutto, circa l’episodio riferito, il confronto non è legittimo, perché i due personaggi prendevano le mosse da due dominî molto eterogenei. Da un lato, si trattava della semplice cavalleria, con la sua etica militare e aristocratica. Invece a quel tempo gli Ismaeliti erano un Ordine di carattere non solo cavalleresco, ma anche iniziatico. Vi era, in esso, una gerarchia di sette gradi. Nei primi quattro, si doveva uccidere la propria volontà, a tal segno da dar prova, occorrendo, di una obbedienza cieca e assurda, come per esempio quella del cavaliere che ad un cenno del suo capo e Gran Maestro si getta giù e si sfracella. Ma chi avesse superato tali discipline, nei gradi superiori della gerarchia dell’Ordine partecipava di una superiore libertà. Per lui non esistevano più leggi, né umane né divine. Tutto gli era permesso. Era libero come un dio.
Non si possono dunque mettere in confronto i due domini. Degli equivalenti sullo stesso piano degli Ismaeliti nel mondo occidentale più recente quasi mancano, dato il carattere della religione venuta a predominare in Europa. Comunque si può ricordare la disciplina monastica dell’assoluta obbedienza, e il termine «obbedienza da cadavere», perinde ac cadaver, fu riferito ai Gesuiti. Nell’Antico Testamento si può ricordare il tipo di obbedienza che, per provarlo, fu chiesto ad Isacco. Resta tuttavia una certa distanza, a causa della particolare idea dell’esistenza terrena e dell’aldilà propria al cristianesimo.
Come si è visto, lo Jünger ha accennato anche a vicende di guerra. Qui naturalmente vien subito fatto di pensare ai «volontari della morte», come sono stati incorrettamente denominati i Kamikaze giapponesi, gli aviatori che con un carico di esplosivi si precipitavano insieme all’apparecchio sulle navi nemiche. In realtà, non si trattava sempre di volontari, erano anche uomini designati, anche se scelti in una data casta di ufficiali, la designazione essendo considerata dal prescelto come un alto onore. Ma anche qui il fondo del fatto militare e del sacrificio era religioso. Di recente, in Germania è uscito un libro contenente le ultime lettere dei Kamikaze. Sono tutte testimonianze di una calma, di un distacco superiore. Il presentatore del libro rileva giustamente che mentre in Occidente ad azioni simili sarebbe stato dato il carattere di un eroismo cupo, tragico e disperato, e probabilmente sarebbero stati prescelti simboli di morte, teschi o altro, i simboli dipinti sugli apparecchi dei Kamikaze erano fioriture di ciliegio, che in Giappone sono simbolo di immortalità. Il che fa già presentire che in casi del genere non si tratta di una negazione della personalità, bensì della affermazione di dimensioni, per così dire, trascendenti di essa, affermazione propiziata da una più alta visione religiosa.
Letteralmente Kamikaze significa «tempesta degli Dei». Con ciò ci si riferì ad un episodio della precedente storia del Giappone: i Kamikaze, quasi incarnazioni della stessa forza divina che, mediante un uragano, distrusse una flotta nemica salvando la nazione. Ora, non si può fare a meno di pensare ad un parallelo offerto dallo stesso Occidente, e propriamente da Roma antica. Si tratta del rito della devotio. L’antica religione romana considerò il votarsi volontariamente alla morte di un capo, che gettandosi senza scampo nella mischia dopo preparativi rituali e la pronuncia di una precisa formula evocatoria (riportata da Livio, VIII, 9), con ciò intendeva provocare uno scatenamento di forze abissali contro il nemico. Quasi come una tradizione, tale rito fu ripetutamente praticato dalla famiglia patrizia dei Decii. Le implicazioni spirituali ultime di azioni simili, a Roma sono difficili da ricostruire, a rendere completo il parallelo coi Kamikaze. Comunque non si deve dimenticare che il mondo classico conobbe l’idea della mors triumphalis, riconobbe cioè la possibilità che la morte eroica apra la via alla reale, privilegiata immortalità che, secondo la tradizione, in ogni altro caso era riservata agli iniziati ai Misteri.
Si è accennato al fatto, che l’esser prescelti pel sacrificio veniva considerato come un onore dal Kamikaze. Nel caso dell’episodio riferito al principio, potrà sconcertare il carattere di assoluta inutilità della morte ordinata dal capo degli Ismaeliti. Tutto ciò riguarda il solo Oriente? Non diremmo. Un solo esempio: quasi come un indiscusso punto d’onore, accettato già in partenza da un ufficiale di marina da guerra, è spesso valso il perire del comandante di una nave insieme ad essa. È quel che ancora fece il comandante della supercorazzata Bismarck. Anche qui, idea dell’onore – e inutilità, perché un ufficiale non nel perire volontariamente ma nel risparmiarsi per combattere e prodigarsi in nuove occasioni sarebbe maggiormente utile alla sua Patria.
Volontari della morte: questo è dunque, nel complesso, un mondo di onore e di luci, di là da Oriente e da Occidente. Esso diviene interamente luminoso nel solo presupposto di una visione non pensata ma vissuta dell’esistenza, più alta di quella che fa cominciare e finire la vita nella condizione umana, salvo alcune confuse concezioni religiose circa l’oltretomba. Diviene interamente luminosa quando si presenta l’esistenza in sé di un nucleo che non ha cominciato né finisce quaggiù. È allora che si può disporre di una superiore libertà, tale da sdrammatizzare e da render chiaro lo stesso gettare la propria esistenza finita, se lo si vuole e se un dato fine lo richiede.
(«Il popolo italiano», 19 giugno 1957)