Evola, o il mago

Questa testimonianza, pubblicata da Emilio Servadio con lo pseudonimo di “E. Esse” sulle colonne del Popolo di Lombardia il 21 aprile 1928, descrive accuratamente il primo contatto fra lo psicanalista ed Evola, contatto che li portò a collaborare in più occasioni, da Ur a La Torre, ma fornisce anche un’immagine assai pittoresca del filosofo romano, in quegli anni. La testimonianza è stata ripubblicata nel 2018 nell’ultima edizione de Il cammino del cinabro, edita da Mediterranee. La ripubblichiamo qui per gentile concessione dell’Editore.

F.J.E.

– C’è il signor Evola?

– S’accomodi.

Mi trovo in un piccolo studio, illuminato da una finestra che dà sui tetti. Sopra un basso tavolo, a destra vicino a me, un libro dalla copertina nera, dal titolo in lettere color carminio: «L’Uomo come Potenza». Altri libri alla rinfusa. Un pugnale nel suo fodero. Una sciabola abbrunita.

Mi guardo intorno. Alle pareti stanno parecchi quadri che osservo curiosamente: i più audaci tra i futuristi militanti impallidirebbero di vergogna di fronte a questo scatenamento cromatico: falangi di soli apocalittici si aprono furiosamente la strada tra un fervido intersecarsi di tenebre solidificato; più in quà, si aggirano convulsi varii prismi addossati come per una diabolica cristallizzazione. Sembra che cerchino senza riuscirvi di evadere dalla tela. Rosso e nero, rosso e nero: queste due note costituiscono il canone della polifonia coloristica che mi circonda. Anche sulla superficie dei «complessi plastici», a base di legno e ferro, situati su varie mensole nelle vicinanze dei dipinti strani, il nero e il rosso si avvicendano insistentemente, evocando in me, per un accostamento assurdo, il titolo di un libro di Barrès: «Du Sang, de la Volupté et de Mort».

Mentre attendo, rifletto sul desiderio che mi ha spinto fin qui, e riassumo mentalmente le conturbanti teorie del pensatore impostosi con pochi libri eccezionali all’attenzione di filosofi e psichicisti. Magia: nome esaltato e deriso, intorno al quale si sono affannati uomini di scienza e sul quale hanno speculato ciarlatani. Nome compromettente sempre, poiché espone chi se ne vale ai dileggi ed ai fanatismi, e che questo ex-dadaista solleva ora nuovamente come un’insegna guerresca, predicando la necessità dello sviluppo magico quale unica via per risolvere la crisi del pensiero Occidentale, e arrestarne la decadenza. Follia? Genio? Certo qualcosa di molto notevole, se non di assolutamente originale: anche soltanto lo scrivere, in quest’epoca saturata di volontà di potenza, che l’uomo è di fatto una larva, fintantoché mediante una lunga e pericolosissima autorealizzazione, non abbia accentrato il Cosmo nell’Io, traducendo in prassi le formulazioni dell’Idealismo, significa porsi solo contro tutti: contro le fedi accreditate, che presuppongono un Principio superiore trascendente; contro la scienza positiva, che ammette una realtà della quale l’individuo non è padrone: contro i vari occultismi, pieni di preoccupazioni moralistiche o addirittura privi di qualsiasi elemento di serietà; contro la filosofia stessa, riassunta nell’Idealismo, del quale viene additata l’insufficienza. E infatti l’«Idealismo magico» (tale è il nome della dottrina) è oggi il punto di vista di un solitario, e di pochissimi seguaci. Chi ha il coraggio di accettare delle premesse implicanti il loro immediato inserimento nella pratica? E quale pratica! «La follia o il suicidio»: tale sorte promette l’Evola a chi indietreggi anche di un passo, una volta inoltratosi nella «via Regia». Date queste concilianti «avances» si comprende davvero come gli «idealisti magici» non siano troppo numerosi, almeno tra noi…

«Saggi sull’Idealismo magico»; «L’Uomo come Potenza»; «Teoria dell’Individuo Assoluto»…; libri che il frequentatore di biblioteche osserva di sfuggita, presentendo dietro le apparenze stravaganti una forza temibile, un fuoco dal quale è facile essere investiti e travolti. Ricordo ancora lo sgomento suscitato, sia pure in ristrette cerchie di studiosi, dalle prime enunciazioni della preoccupante teoria. «Pazzesco», «inaudito», «formidabile», «degno del rogo»… Questi, o press’a poco, gli aggettivi adoperati da coloro che se ne sono occupati fin qui.

Non sono tranquillo. L’idea che da un momento all’altro mi troverò di fronte a colui che, certo più di ognuno, è «andato avanti» nel senso predicato (illusione? Ma di quale forza!) mi dà, lo confesso, un malessere lieve, che tento di risolvere nell’atteggiamento dubbioso della persona «che ne ha viste tante».

Presentazione reciproca. L’uomo che ora mi sta dinnanzi dimostra una trentina d’anni, forse meno: fronte spaziosa, sorriso cordiale, se pur lievemente staccato e avvolto come in un velo di repressa melanconia.

(Non mi attendevo certo di vedermelo apparire nelle vesti di un sacerdote Druidico, ma tant’è constatare che ha una cravatta, un colletto, un abito da passeggiata, proprio come me, mi rassicura non poco).

Quando però sediamo, l’uno di fronte all’altro, mi convince subito, con mia inutile meraviglia, che l’intervista la sto subendo io. Lo sguardo di Evola pare giungere di chissà dove, ed i suoi grandi occhi si direbbe che cerchino perennemente di capire, nel senso classico di «prendere dentro di sé». Sento nel modo più netto la presenza di un’energia indomabile, contenuta, ma pronta a scattare fulmineamente… Sono passati pochi secondi ed ho l’impressione che Evola mi conosca ormai molto più di quanto io abbia potuto documentarmi su di lui attraverso i suoi scritti. Non me ne adonto: e poi l’impressione passa presto. Evola parla poco, ma ha il dono apprezzabilissimo dell’ascoltatore. Gli dico dei suoi lavori, accenno a qualche recensione che lo riguarda… Sono certo che non perde una mia parola.

Mi ringrazia quindi pacatamente, senza effusione, ma con voce caldissima e timbrata. Si accende invece di più dandomi qualche ragguaglio sui progetti del piccolo gruppo di studiosi che a lui fanno capo; parla della difficoltà di farsi intendere, ride silenziosamente dicendomi che l’hanno accusato di incomprensibilità: «Forse non hanno torto: trovare chi capisca non è punto facile…» (mentre discorre le sue mani giocherellano col lungo pugnale, ch’egli estrae e rinfodera, macchinalmente).

Di due conferenze, da lui tenute qualche tempo addietro, mi offre gentilmente un estratto (un fascicoletto rosso e nero, naturalmente), ed è indescrivibile il tono col quale soggiunge: «La prima non ha destato veramente molta risonanza; ma dopo la seconda c’è chi ha avuto delle visioni…». Sorride ancora, piuttosto ambiguamente, e la sua voce si perde in un mormorio che non intendo.

Rompo il breve silenzio che segue pregandolo di lasciarmi sfogliare qualche libro. «Ma se li conosce già…» (Io?!). Apro a caso, fra i testi di occultismo e di mistica o di metafisica, un anglo volume di esegesi sopra curiosi testi indiani. In fondo, pagine di sanscrito, e parecchie ossessionanti fotografie di uno «yoghin» in varie posture iniziatiche. Uno specialmente mi colpisce: lo «yoghin» è seduto sopra un giaciglio, e allaccia convulsamente con le due mani l’estremità della gamba destra irrigidita. Gli occhi sembrano gettare fiamme nello sforzo spaventoso. Chiudo in fretta.

Mi congedo, non senza aver accennato ai quadri che mi hanno colpito all’entrare. So che l’arte dadaista ha un posto nel sistema di Evola, ma vorrei avere qualche informazione ulteriore. Ma capisco invece subito, da un cenno eloquente del capo, che si tratta di cose di gioventù, e che ormai l’espressione artistica è uno stadio superato per l’autore dell’«Uomo come Potenza».

Sulla porta mi ringrazia ancora, già assente e rivolto a cose lontane.

Quando la porta si chiude confesso che respiro più liberamente. Ora mi sembra proprio di uscire da una misteriosa fucina, e rivedo con sollievo il sole e il cielo altissimo di Roma. Che diamine. Una visita a un Mago lascia sempre un po’ scossi, specialmente quando non si porta con sé l’Enchiridion di Papa Leone, che dicono protegga mirabilmente contro le avventure esoteriche.