La via del cinabro e la via rosicruciana

Roma, anni Venti e Trenta del secolo scorso. La vita intellettuale della Capitale è animata da una serie di innumerevoli e disparate iniziative: conferenze, dibattiti, serate a tema in locali esclusivi o nelle sedi di associazioni spiritualiste, che hanno per protagonisti redattori di riviste esoteriche quali Ultra diretta da Decio Calvari (1907-1930), Ur-Krur (1927-1929) e la Torre (1930) di Julius Evola. I relatori, in toni appassionati, presentano temi inusitati per la cultura ufficiale, aprendo gli orizzonti dello spirito a pratiche realizzative d’Oriente, mentre riscoprono e ripropongono anche Vie, ormai poco battute, d’Occidente[1]. A volte, questi pensatori e artisti, entrano direttamente nell’agone politico. Anzi, uno di loro, Julius Evola, già al declinare degli anni Venti è considerato un audace contestatore della cultura ufficiale del Regime fascista, di cui, dalle pagine della Torre, proporrà una rettifica politico-spirituale in senso tradizionale.

Attratto dalla nomea di bastian contrario che il filosofo romano si era conquistata nel tempo, una mattina della primavera del 1930, come egli stesso racconta, bussò alla sua porta di Corso Vittorio Emanuele 197 in Roma, un giovane curioso e già in cammino sulla strada della ricerca interiore. Si trattava di Massimo Scaligero. Questi ricorda così il loro primo colloquio “Evola prontamente mi venne incontro con genuina simpatia: e questa simpatia fu la forza di connessione estradialettica ed estradottinaria che mi congiunse a lui per anni”[2]. In questi due nomi della cultura controcorrente, che svolsero un ruolo di primo piano, come di seguito si dirà, nel secondo dopoguerra, al fine di dare speranza a quanti non vollero arrendersi alla sconfitta, innanzitutto di civiltà, patita dall’Europa, è possibile leggere due Vie latrici di un Nuovo Inizio, che corsero e si dipanarono nel tempo in parallelo. Vissero e pensarono la loro proposta teorica ed esistenziale in una sorta di discorde concordia[3]. Tale affermazione la si evince, innanzitutto, dalla lettura dell’autobiografia spirituale di Scaligero, Dallo yoga alla Rosacroce, così come dall’informata e appassionata prefazione di Beniamino Melasecchi che da anni meritoriamente cura per le Edizioni Mediterranee la pubblicazione dell’opera omnia scaligeriana. In essa si presenta in termini condivisibili il profilo del Maestro, al quale Melasecchi, che lo ha frequentato per anni, è legato da empatia spirituale ed intellettuale, senza tralasciare in alcuna circostanza il dato esistenziale oggettivo e senza che i suoi giudizi scadano nell’agiografia scontata. Egli fornisce al lettore le coordinate per comprendere come la biografia di Scaligero debba essere interpretata sub specie interioritatis, quale “[…] progressivo trapasso di vicende ed esperienze a un grado sempre più elevato di coscienza, progressivo incontro con quella Realtà cui egli spesso doveva dare il nome platonico di Lògos[4]. In questi trapassi successivi il ruolo svolto dal tradizionalista romano fu significativo: “Grazie ad Evola, ho incontrato un momento decisivo della mia esperienza interiore: quello del sentimento della liberazione, cha dà la imagine piuttosto che la conoscenza della liberazione”[5]. Ora per comprendere questo incontro è necessario ripercorrere, seguendo le sue stesse indicazioni, la biografia interiore di Scaligero, sempre intersecata, come riconosce Melasecchi, con quella esteriore.

Dallo Yoga alla Rosacroce

Antonio Massimo Sgabelloni nacque a Veroli in Ciociaria nel 1906, in quanto il padre, di origini calabresi, si era trasferito in quel paese per ragioni di lavoro, ma ben presto andò a risiedere con la famiglia a Roma[6] presso l’abitazione dello zio Pietro Sgabelloni, che sul bambino e poi sul giovane svolgerà un’azione formativa profonda. Infatti, oltre che giornalista affermato, firma di prestigio del Giornale d’Italia, animava un cenacolo di esoteristi romani. Non ebbe difficoltà a rendersi conto della naturale propensione per il sovrasensibile del nipote e ne seguì con attenzione gli sviluppi. La biografia spirituale di Scaligero, si interseca pienamente con un elemento essenziale della biografia esteriore. Diciassettenne, egli contrasse dalla fidanzata Clara Lucilla Locatelli la tubercolosi, dalla quale non guarì mai completamente. La malattia si trasformò per lui in una prova iniziatica, divenne il suo “occulto educatore della funzioni vitali”, il guardiano del respiro interiore[7]. La mancata remissione dell’infezione polmonare gli costò in età matura, l’apertura di una fistola nel costato che continuò a sanguinare fino al giorno del decesso. Intraprese gli studi universitari iscrivendosi alla facoltà di Giurisprudenza, ma presto li lasciò decidendo di dedicarsi all’attività di giornalista e di pubblicista. Per l’occasione scelse come pseudonimo il nome di Scaligero, con il quale è diventato ben presto noto. Dopo i primi esperimenti giovanili di composizioni poetiche lodate da D’Annunzio (amico dello zio) e gli esordi adolescenziali con un romanzo a puntate apparso su La Piccola Gazzetta, ottenne l’iscrizione all’albo dei giornalisti nel 1934[8].

Cominciò così a dedicarsi ai suoi più veri interessi, si occupò dell’origine dei popoli italici e della missione sacrale di Roma, così come dei retroscena occulti della storia contemporanea e, stimolato dalle riviste e dal milieu esoterico romano, intensificò la verifica della propria esperienza interiore confrontandosi con la dottrina ermetica, lo Yoga, la gnosi. Il dibattito a Roma ferveva su questi temi presso la Libreria Tombolini, ma anche nella redazione di Italia Marinara, dove Scaligero aveva il suo ufficio. Egli stava mettendo in atto l’ambizioso tentativo di svuotare il pensiero “legato al sensibile” al fine di rintracciare una “possibilità nuova di interloquire con forze sovrasensibili”[9]. Cercò corrispondenti di valore con cui confrontarsi in merito alla nuova Via che cominciava ad intravvedere, per ottenere la loro approvazione: scrisse ad Aurobindo e a Guénon, senza ottenere apprezzabili risultati. Neppure gli amici Evola e Paolo M. Virio (alias Paolo Marchetti) lo seguirono sino in fondo, in quanto in cammino su altri sentieri. Nel capitolo dell’autobiografia dedicato a Virio, Scaligero presenta al lettore un’idea di amicizia totalmente sottratta alle polemiche contingenti e ai casi esteriori della vita che, anche tra loro, avevamo prodotto incomprensioni e divergenze. Al cognato (Virio sposò la sorella di Massimo, Adelina) rimase grato per la generosa ospitalità concessagli nella torre di Isola Farnese, posta sulla sommità delle rovine di Veio, dove poté scrivere il Trattato del pensiero vivente. Trovò ascolto e comprensione, invece, in Giovanni Colazza, il quale intuì che la sua ricerca lo avrebbe condotto all’inevitabile incontro con l’antroposofia di Rudolf Steiner. Infatti, leggendo le pagine di Scienza occulta del tedesco, Scaligero incontrò qualcosa di già percepito: “la luce e la vita dell’etere del pensiero e la nuova coscienza immaginativa”[10].

Per tale scelta di campo, venne criticato dall’ambiente tradizionalista nel quale, per certi versi, fino a quel momento, si era identificato. Nonostante le divergenze, Evola gli inviò, oltre che alcune missive da Bologna in cui dissentiva dagli sviluppi che Scaligero aveva dato al suo percorso spirituale, le bozze del capitalo di Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, opera in cui il filosofo romano venne ai “ferri corti” anche con l’antroposofia, affinché l’amico lo rivedesse. Naturalmente questi non compì alcun intervento sul testo. L’episodio mostra comunque la stima che i due esoteristi nutrivano l’uno per l’altro. Entrambi si mostrarono superiori e diversi rispetto agli zelanti discepoli e dello steinerismo e dell’evolismo, sempre pronti ad insorgere in difesa di una presunta ortodossia dottrinaria. Anzi, più volte capitò che Evola indirizzasse a Scaligero giovani che a lui si erano rivolti, convinti di voler seguire il suo insegnamento, ogni qual volta si rese conto che per la sua Via non erano tagliati. E la medesima cosa fece Scaligero nei confronti di Evola: un vero e proprio scambio di discepoli “potenziali”.

A Scaligero, ma in parte anche ad Evola, venne contestata la fedeltà a un’esperienza interiore che prescindeva dall’iniziazione regolare, oltre che la strutturazione di un sistema di pensiero che non si serviva del metodo scientifico. Ricorda Melasecchi che per questo, dagli anni Trenta alla fine della guerra, egli operò per rispondere ai critici e dare veste intellettuale adeguata alle proprie conquiste spirituali. Collaborò alle pagine culturali di Regime fascista, dirette da Evola, oltre che ad altri quotidiani e riviste, si occupò delle lotte per l’indipendenza dell’India, scrisse un saggio di grande rilievo su La razza di Roma, in cui leggeva le origini e le sorti della Città Eterna indissolubilmente legate a quelle dell’Italia e alcuni romanzi[11]. La vicinanza al fascismo, la frequentazione durante la guerra dell’ambasciata tedesca a Roma, la posizione di redattore capo all’Italia Marinara, diretta dal gerarca Achille Starace, furono fattori determinanti per l’arresto di Scaligero ad opera degli Alleati il 10 giugno 1944. Fu rilasciato, prosciolto da ogni accusa, il 16 novembre. Più volte, dopo la guerra, la moglie Concetta Olivieri gli chiese di rinunciare allo pseudonimo che lo aveva reso noto (ma certamente non ricco) negli anni del regime, ma egli, per coerenza ideale, non seguì questi consigli, rimanendo fedele alla “linea del suo destino”.

La testimonianza tra le rovine

Ciò lo rese, assieme ad Evola, testimone di un’Italia non sconfitta. Tornò ad insegnare, ai giovani che gli chiedevano lumi, l’amor di Patria, fornendo loro una possibile connessione con la Scienza dello Spirito. Fu così attorniato da molti studiosi di valore, tra essi si distinse Pio Filippani Ronconi. Collaborò all’inchiostro dei vinti, la stampa neofascista, e scrisse per le medesime riviste sulle quali compariva la firma di Evola. Anzi, fu proprio Scaligero a sollecitare Evola a collaborare a queste testate; cosa che fece, inizialmente, firmandosi con lo pseudonimo “Arthos”, con il quale i suoi scritti erano comparsi su La vita italiana di Preziosi, e poi con il suo nome. Il suo primo articolo intitolato Coraggio radicale fu inviato a Scaligero che si prodigò per farlo avere ad Enzo Erra, direttore, assieme ad Egidio Sterpa, de La Sfida. Qui uscì sul numero del 20 giugno 1949[12]. In quei mesi, intanto, intorno a Scaligero si consolidò un vero e proprio discepolato antroposofico, come poteva constatare chiunque intervenisse alle riunioni nella casa di Via Anton Giulio Barrili, per cinquant’anni luogo d’incontri e di eventi. Nel 1950 divenne redattore capo, e dal 1955 direttore responsabile, della rivista East and West, organo dell’IsMEO di Tucci. A quest’ultimo propose la collaborazione del filosofo tradizionalista alla rivista, e Tucci approvò. Scaligero strinse così relazioni di studio e d’amicizia con studiosi di eminente spessore, tra essi Gherardo Gnoli, Alessandro Bausani, Mario Bussagli, Corrado Pensa, solo per fare qualche nome. Tali dotte frequentazioni gli furono certamente di stimolo per portare a termine un compito che si era prefisso: scrivere un libro l’anno. Lo fece tra il 1959 ed il 1980. In questo frangente storico, connotato da disorientamento esistenziale, egli diviene editore di se stesso.

Dopo la morte di Evola nel 1974, alcuni discepoli del tradizionalista si avvicinarono a Scaligero, mentre questi, per intercessione di Gianfranco de Turris, iniziò la collaborazione con le Edizioni Mediterranee. Suoi saggi comparvero sulla rivista “evoliana” Vie della Tradizione di Gaspare Cannizzo. Egli era consapevole, come rileva Melasecchi, del tratto stimolante della critica evoliana all’antroposofia, in quanto capace di indurre “un’assunzione cosciente della prassi ascetica, ossia oltre ciò che l’individuo è per natura, oltre la qualificazione iniziatica che già possiede”[13]. Quindi, il nucleo centrale della speculazione scaligeriana, è da individuarsi nella concretezza dell’esperienza spirituale, al di là di ogni astratto intellettualismo. Concretezza, intesa come presenza di sé allo spirito e cioè, coincidenza di intuizione e atto. Mentre Steiner operò sul linguaggio al fine di poter parlare a un tipo umano propenso all’astrazione filosofica, al fine di condurre il discepolo a superare la parole e penetrare, così, il sovrasensibile, Scaligero, nelle proprie pagine, pretende che la lettura si trasformi in alchimia spirituale in modo diretto. Il suo periodare può apparire faticoso al lettore in possesso della sola chiave intellettualistica. Egli pretende una dilatazione della coscienza, ad opera di un pensiero depurato dai limiti del convenzionale. Fondamentale è, in Scaligero, l’ineludibile rapporto corporeità-pensiero: è a partire dalla manifestazione che è possibile risalire al principio. Perciò il primo agire è quello immediato, quotidiano, del processo sensorio. È in tema di percezione che lo studioso si pone oltre lo Steiner della Filosofia della libertà: l’indagine dell’atto percettivo non può essere che auto-esperienza e non può che rinviare al superamento del pensiero razionale, attraverso un costante rimando al vero, inteso in senso fenomenologico. Tale è la sperimentazione rosicruciana sulla quale, tanto a lungo, lo studioso si soffermò. Il concetto non va solo pensato, ma visto, attualizzato. La vera chiave universale da lui sollecitata è, pertanto, l’Io: l’ospite nascosto che rende ogni uomo tale.

La discorde concordia

Per Enzo Erra, ciò che divideva, ma al medesimo tempo univa, Evola e Scaligero, era la fedeltà alla Tradizione, che per il secondo voleva dire “incarnarla nelle nuove forme in cui essa chiede di manifestarsi oggi”[14]. Oltre questo aspetto generale, divergenze evidenti emergono nelle opere dei due in tema di reincarnazione, in merito all’interpretazione cristiana dell’ermetismo e del ciclo del Graal da parte di Scaligero, ma anche in riferimento all’orientalistica. Più in particolare, Evola rimproverava all’antroposofia nel noto capitolo quinto di Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo di essere un intreccio contraddittorio di elementi. Nel pensiero steineriano, e di rimando in Scaligero, egli rilevava tre componenti strutturali: una di origine teosofica, e perciò legata ai “segni dei tempi”, alla confusione di sacro e profano, la seconda legata alla “credenza” cristiana (stigma dal quale si evince la connotazione negativa che ciò aveva agli occhi di Evola), ed una ritenuta più positiva, ascetica e di scienza dello spirito. Già nell’edizione del 1932 di quest’opera il tradizionalista sosteneva come nei testi antroposofici si evincesse “il senso penoso di una direzione retta e limpida, spezzata da improvvisi e tirannici flussi visionarii e da irruzioni di complessi collettivi”[15]. Inoltre, esasperando il fatalismo evoluzionista di origine teosofica, Steiner e Scaligero avrebbero presentato, inserendosi nella corrente speculativa di filosofia della storia, una serie di fatti in successione, per decodificare i quali la dimensione sovrastorica era di fatto considerata inessenziale. Tale esegesi limitava di conseguenza l’orizzonte umano alla sola temporalità e al mondo storico, per di più con la complicità dell’umanesimo cristiano. Con l’incarnazione e con Cristo, a dire di Steiner, il divino si sarebbe trasferito nell’uomo: da ciò la necessità di inverare la teosofia nell’antroposofia. Nell’età cristiana l’uomo spiritualizzato, sarebbe all’altezza di auto iniziarsi. La cosa venne giudicata da Evola un azzardo teorico. Inoltre, per le medesime ragioni, si sarebbe conservata nell’antroposofia l’incomprensione per la legge del karma “[…] e una trasmigrazione ridottasi a ‘rincarnazione’, quelle stesse superstizioni ‘evoluzionistiche’, quelle stesse ‘carrellate’ attraverso pianeti che si rincarnano in altri pianeti”[16], fisime proprie del teosofismo.

Inoltre, in merito ai tre stadi di sviluppo individuati dagli antroposofi (precristico-cristico-iniziatico), che determinarono la loro incomprensione del mondo classico, il filosofo romano propose una de-storicizzazione (spiritualità prepersonale-della comune personalità-della supercoscienza). In questo contesto Evola si riferisce agli individui, più che all’umanità nel suo complesso e riconosce a Steiner dei meriti: pensare il sovrasensibile come scienza, di là di ogni fideismo o dogmatismo, far conto su una salda formazione interiore al fine di dar luogo ad ogni pratica realizzativa, non rinunciare al pensiero logico. Al contrario, il tradizionalista ritiene ambigua la dottrina dei “corpi” dell’uomo e dell’ascesi antroposofica, in quanto sospesa tra la posizione teosofica rinviante i sette stadi intermedi tra spiritualità e corporeità alla materialità, mentre al contempo i “corpi” superiori, venivano definiti conquiste spirituali con le quali l’Io avrebbe potuto dominare la dimensione passionale ed emozionale. Il problema per Evola stava nel prosieguo dell’argomentazione steineriana-scaligeriana, che sostiene tali stadi essere una conquista dell’umanità guidata da arcangeli ed esseri consimili.

La discorde concordia nell’orientalistica è, invece, stata esemplarmente spiegata da Pio Filippani Ronconi. Questi rilevò come Scaligero abbia fatto riferimento all’Oriente e alla sua millenaria tradizione, avendo sempre presente il problema del tipo di pensiero con cui immaginare l’opus da compiere. Pensiero che, ovviamente, non può essere, né dialettico, né astratto, né sotto l’influsso del sentimentalismo misticheggiante, bensì pensiero che prende le mosse dalla medesima sfera che presuppone di raggiungere: in termini buddhistici il bodhi-citta, di cui parla il Mahayana. Questa posizione lo allontanò da Evola che, al riguardo, presupponeva da parte del sadhaka l’essere stato acquisito a questo tipo di pensiero per il fatto soggettivo ed eccezionale che egli possedeva, naturaliter, tale tipico immaginare magico-realizzativo[17].

Lungo questo percorso Evola e Scaligero, ebbero un altro divergente incontro, mi riferisco alle problematiche della Filosofia della Libertà, titolo di una delle opere capitali di Steiner, in cui il rapporto io-mondo è risolto in immagine vivente del pensiero, in pensare che osserva il pensiero, la forza del pensare a prescindere dal suo ancorarsi all’oggetto pensato, un pensare che si afferma da sé e sperimentabile nelle discipline interiori della Concentrazione, Meditazione, Contemplazione. Ciò è certamente rilevante a condizione che si ricordi che anche Evola è stato latore di una radicale filosofia della Libertà. Una Libertà-Potenza e principio, abissale, non entificabile e per questo irriducibile e al nichilismo moderno e alle categorie della metafisica (in senso heideggeriano) in cui è l’ente ad essere preminente e a ricondurre sempre a se stesso. Fondamento infondato e baricentro di un’altra idea di verità. Per dirla con Massimo Donà “altra sia rispetto a quella da sempre frequentata ed esperita dai troppi e sempre astratti riduzionismi esoterici, sia da quella fatta propria invece dal rigido razionalismo scientifico e filosofico”[18]. Ulteriore pertanto alla stessa prospettiva antroposofica.

Conclusioni

I due studiosi seppero riconoscere e valorizzare comunque, negli stessi rapporti umani che intrattennero, al di là di differenti posizioni di pensiero, ciò che avevano in comune rispetto alla cultura del loro tempo. Non solo condivisero un percorso di vita e di ricerca in parallelo, sia pure concorde nella discordia (comunque innegabile!), ma, per certi aspetti, anche la modalità del trapasso. La morte non li sorprese, ma li trovò intenti nel fare ciò che andava fatto. Evola, nel rivolgere per l’ultima volta lo sguardo al sole sul Gianicolo (11 giugno 1974), Scaligero il 26 gennaio 1980, come con commozione ricorda Melasecchi, al tavolo di lavoro, immerso tra le carte, i libri e gli appunti, folgorato da un infarto. Vite paradigmatiche e stellari di cui il tempo presente non ha contezza alcuna.


[1] Il clima spirituale del periodo, i protagonisti delle dispute in questione, animano un recente romanzo che consente al lettore un’agevole via di accesso ad un mondo altrimenti, alla luce della solidificazione materialistica nella quale oggi siamo calati, difficilmente comprensibile. Nelle sue pagine si narra l’amore di Giulio Parise, esoterista, e di Sibilla Aleramo, nota scrittrice e proto-femminista, ma viene inoltre presentata la sua liaison con Julius Evola. Cfr. S. Caltabellota, Un amore degli anni Venti. Storia erotica e magica dell’amore di G. Parise e S. Aleramo, Ponte alle Grazie, Firenze 2015.

[2] Cfr. M. Scaligero, Dioniso, in, Testimonianze su Evola, a cura di G. de Turris, Edizioni Mediterranee, Roma, II ed. 1985, pp. 180-189, qui p. 182; M. Scaligero, Dallo Yoga alla Rosacroce, Prefazione, introduzione e note di B. Melasecchi, Edizioni Mediterranee, Roma 2012, cap. III, pp. 77-86.

[3] Sulla discorde concordia dei due pensatori cfr. E. Erra, Il mistero di Evola, in, Testimonianze su Evola, cit., pp. 248-259.

[4] Cfr. B. Melasecchi, Introduzione, in, M. Scaligero, Dallo Yoga alla Rosacroce, cit., pp. 11-55. qui p. 12.

[5] Cfr. M. Scaligero, Dioniso, cit., p. 183.

[6] Nel novembre del 1982, a due anni dalla scomparsa avvenuta il 26 gennaio 1980, si tenne a Veroli, un convegno commemorativo della figura di Massimo Scaligero. Il locale Centro Studi Scaligeriano, allora animato, tra gli altri, dal giovane Fabrizio Fiorini, si attivò per organizzare un evento culturale di grande spessore, che vide una notevole partecipazione di pubblico. La giornata di studio si svolse nella suggestiva cornice della Chiesa sconsacrata di S. Martino, sita nell’area immediatamente limitrofa all’antico centro medievale di Veroli. A volere fortemente il Convegno di studi fu il prof. Mario Bussagli, residente nel paese del frusinate. Le relazioni furono tenute dallo stesso Bussagli, da Elio Uccelli e da Pio Filippani Ronconi. Le scarne notizie in nostro possesso le abbiamo tratte da un opuscolo edito, allora, dalla locale Pro Loco,e dai colloqui intrattenuti a suo tempo con Marco Bussagli, figlio di Mario, anch’egli storico dell’arte. Cfr. E. Uccelli, Introduzione alla lettura di Massimo Scaligero, Edizioni Pro Loco, Veroli 1982. Sulla casa natale del pensatore, dal 26 gennaio 2000 è stata scoperta una lapide commemorativa.

[7] Cfr. B. Melasecchi, Introduzione, cit., p. 21.

[8] Il romanzo venne pubblicato a puntate sul mensile La Piccola Gazzetta. Giornale della “Casa dei bambini” a partire dal 1 gennaio 1919 con il titolo Briciolino-Storia di un grillo. Questo scritto per l’infanzia mise con chiarezza in luce la vena immaginativa di cui Scaligero era particolarmente dotato.

[9] Ivi, p. 26.

[10] Ivi, p. 29.

[11] Cfr. M. Scaligero, La razza di Roma, Mantero, Tivoli 1939. Tra i romanzi va segnalato Niccoloso da Recco navigatore atlantico, Oberdan Zucchi, Milano 1942; ultima ed. a cura di L. M. Olivieri, Tilopa, Roma 2003. Sorta di epopea italiana della scoperta delle Isole Canarie, quali ultime vestigia di Atlantide.

[12] È lo stesso Erra a ricordarlo. Cfr. E. Erra, Evola e Scaligero, in Studi evoliani 1998. Fondazione J. Evola, Roma 1999, p. 63. Per ricostruire la collaborazione evoliana all’inchiostro dei vinti cfr. G. de Turris, Julius Evola. Un filosofo in guerra 1943-1945, Mursia, Milano 2016, pp. 165-172.

[13] Cfr. B. Melasecchi, Introduzione, cit., p. 51.         

[14] Cfr. E. Erra, Il mistero di Evola, cit., p. 256. Di questo particolare aspetto del magistero scaligeriano si è di recente occupato S. Arcella in, Misteri antichi e Pensiero Vivente, Controcorrente, Napoli 2016. Cfr. soprattutto il cap. 12, pp. 169-208.

[15] Cfr. J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Bocca, Torino 1932, p. 61.

[16] Cfr. J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Edizioni Mediterranee, Roma 1972, p. 92.

[17] Per tutto ciò cfr. E. Uccelli, Introduzione alla lettura di Massimo Scaligero, cit.

[18] Cfr. M. Donà, Un pensiero della libertà. J. Evola: filosofia e magia a cospetto dell’impossibile, in J. Evola, Fenomenologia dell’individuo assoluto, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, pp. 13-33, qui p. 31.