Due lettere al «Meridiano d’Italia»

1. Da Regina Coeli. Una lettera di Evola[1]

La mia faccenda si protrae per l’evidente presenza di un momento estralogico ed estragiuridico. Io naturalmente non sapevo assolutamente nulla delle iniziative “attivistiche” e organizzative di quei giovani (ove qualcosa di reale vi sia stato in tutto ciò). E tutti coloro che sono stati arrestati hanno dichiarato nel modo più esplicito ciò. Del resto, io avevo chiesto un confronto nel caso contrario, confronto che non ha avuto luogo, mancandone appunto ogni base. Da chi sono stato interrogato con tono quanto mai deferente, mi si era assicurato un immediato rilascio. Peraltro, per ora, tutto il “corpus delicti” si riduce all’opuscolo Orientamenti, in quanto uscito presso “Imperium”, all’articolo “Due intransigenze”, e ad un paio di altri, tutti usciti da gran tempo. E il bello è che mentre in essi non erano e non sono stati rilevati i termini per “apologia”, pure – con vera incoerenza – si vorrebbe che essi abbiano “inspirato” quei giovani per la ricostruzione violenta del PNF, donde una mia presunta “correità ideologica”.

Tale essendo lo stato di fatto, è evidente che se si giungerà ad un processo, questo sarà – nei miei riguardi – un puro processo ideologico, e ci sarà allora davvero da divertirsi, perché si è preso “the wrong man”, cioè l’uomo sbagliato, qualcuno che non è mai stato tesserato, che non ha appartenuto ad alcun partito, le cui idee sono state le stesse prima, durante e dopo il fascismo e che se ha difeso idee “fasciste” non le ha difese in quanto “fasciste”, ma in tanto e in quanto corrispondono a tutta la grande tradizione politica europea, alle idee stesse di un Federico il Grande, di un Metternich, di un Donoso Cortés e di altri… fascisti.

Peraltro, a parte la mia persona, che non ha un particolare valore, sarebbe interessante che dal “caso” in sé venisse tratto tutto il profitto possibile […].

Non mi sembra poi adeguato parlare tout court di “paralisi” senza dirne la causa. L’immagine di un “professore (!) paralitico (!)” è orripilante per l’idea che desta in chi non mi conosce e che penserà a malattie di un qualche “intellettuale imbelle e fuori uso”, mentre, senza quella ferita, le mie forze attuali, fisiche e non fisiche, mi permetterebbero di seguire senza svantaggio, per omne fas et nefas, la “gioventù” di oggi. Del resto la designazione ufficiale, che sta sul libretto di pensione, è “Grande invalido di guerra”. Ma ciò, del tutto di passata.

(Meridiano d’Italia, 26 agosto 1951)

2. Una lettera sul processo di Roma. Neofascismo e no

Caro Servello.

Le relazioni incomplete e, in parte, tendenziose che la stampa quotidiana ha dato delle mie dichiarazioni al processo dei giovani “neo-fascisti”, rendono necessaria una messa a punto, soprattutto di fronte agli amici del Movimento.

Credo che il mio costituisca un caso interessante, per la chiarificazione del cosiddetto reato di “apologia del fascismo”. L’Accusa, da me inviata ad uscire dalle generalità e a precisare quali siano specificamente le “idee proprie al fascismo”, la cui difesa sarebbe reato, ha avuto l’imprudenza di dichiarare che esse sono la monocrazia, la gerarchia e l’aristocrazia – cosa che Carnelutti, da maestro, si è affrettato a far consacrare in verbale, a mortificazione di quanti in Italia non sono accecati dalla passione di parte o dall’ignoranza, più che per reale esigenza difensiva. Naturalmente, è stato allora facile far rilevare che, insieme a me, come imputati, dovrebbero stare un Platone, un Aristotele, un Dante e così via, fino ad un Bismarck e a un Metternich; che “fascista” sarebbe stato più o meno tutto il mondo precedente il ’48 e la Rivoluzione francese. Dopo di che io ho dichiarato che idee “fasciste” le ho difese e le difendo non in quanto esse sono fasciste, ma in quanto continuano appunto questa grande tradizione politica, e che tale difesa l’ho fatta da uomo libero, partendo dalla pura dottrina, perché per principio non mi sono iscritto mai ad alcun partito, quindi nemmeno al PNF e al PRF.

Affermando questo, credo di essere rimasto su una linea di coerenza, nota a chiunque conosca la mia opera e la mia attività, ieri ed oggi, linea non alterata dall’aver aggiunto io che, mentre del fascismo ho difeso gli aspetti superiori, ne ho combattuto lati problematici o comunque risententi della crisi del mondo moderno (totalitarismo, gerarchismo al luogo di gerarchia, la stessa socializzazione nel suo aspetto cripto-marxista, ecc.).

Su ciò non credo che debbano sorgere equivoci; nemmeno, in particolare, per aver detto di non essermi iscritto al PRF. Infatti, agli amici deve essere noto il mio atteggiamento dopo il 25 luglio e l’8 settembre, fino a quando fui ferito, mentre proprio d’innanzi alla Corte d’Assise ho letto un passo in cui si parla della levatura etica di “chi ha saputo scegliere la via più dura, combattere anche sapendo che la battaglia era materialmente perduta, seguire il principio della fedeltà e dell’onore”.

Infine, in uno dei resoconti è stato riferito in modo tronco un episodio del dibattimento. Per mettermi in cattiva luce, l’Ufficio politico della Questura non si è peritato di riesumare dicerie messe in giro contro di me da certi avversari in malafede nel ventennio, e secondo le quali sarei stato vigilato (cosa di cui mai mi accorsi e che non doveva impedire a Mussolini di tributarmi un alto riconoscimento). Ora, di contro a ciò ho detto che tale Ufficio, che oggi mi denuncia per fascismo, dovrebbe, dal momento che non rifugge dalle riesumazioni, ricordare anche che nel 1930 mi diffidò e fece sospendere la pubblicazione del mio giornale La Torre per presunti “attacchi contro lo squadrismo”. Però ho subito aggiunto che, in realtà, si trattava solo di attacchi contro certi figuri, che abusavano della qualifica di squadristi per le loro personali malefatte.

Mi sembra opportuno che tutto ciò sia reso noto, soprattutto per gli amici coimputati di “neo-fascismo”, nei riguardi dei quali ho dichiarato al dibattimento che, ritornando in Italia, fu per me motivo di conforto e di speranza, per le sorti del nostro disgraziato paese, il loro entusiasmo e la loro consapevolezza, nonché il disinteresse e il vivo fermento spirituale che, in questi tempi di oscuro materialismo, essi sanno dimostrare.

Con ogni cordialità.

(Meridiano d’Italia, 21 ottobre 1951)


[1]          Al testo dello scritto era premesso il seguente occhiello: “Lasciato tranquillamente da più mesi in galera sotto vaghi pretesti politico-filosofici, il nostro Julius Evola, grande invalido di guerra, fa fronte alla situazione con la forza d’animo dei valorosi e la calma dei saggi. Egli sarà processato in ottobre e, nel frattempo, così scrive in una lettera ad uno di noi”.