La preesistenza come problema morale

La vita del nostro essere più profondo ha preso inizio nella condizione attuale, terrestre, di uomo, ovvero ha preesistito a tale condizione? Questo è il problema della preesistenza, problema, che non ha soltanto un interesse astratto, speculativo, ma anche concreto, per tutto ciò che dall’una o dall’altra soluzione di esso può derivare come condotta o come visione generale della vita. Per quanto grande sia il potere che oggi miti e discipline politiche hanno sul singolo, questi, di là da ogni ebrezza collettiva, sempre tornerà a chiedersi sul suo intimo destino, sulla sua destinazione, sulla sua origine.
È poi da notarsi che il problema della preesistenza va posto in una relazione assai stretta, di quel che abitualmente filosofi e teologi non facciano, con un problema assai più sentito e discusso, cioè col problema della sopravvivenza e della stessa immortalità. Infatti, in forza del principio, che nulla vien da nulla, si dovrebbe esser portati a chiedersi se sia ragionevole supporre che qualcosa di noi sussista dopo la vita terrena, quando non si sia partiti dall’idea, che qualcosa di noi esisteva già prima della vita terrena.

Aspetti del problema

Il problema della preesistenza è poi importante nel campo sociale e perfino politico, qualora questo campo sia considerato da un punto di vista tradizionale. Si sa già che, a tale riguardo, il punto di vista tradizionale è quello di un ordinamento degli uomini conforme alla loro propria natura, di una fedeltà non solo alla propria essenza, ma altresì alla propria casta o classe e alle funzioni che a questa corrispondono. L’ordine tradizionale – quello del romano suum cuique, dell’ellenica “giustizia”, del dharma delle antiche gerarchie indogermaniche, della fides medievale – si concentra tutto nell’idea della “natura propria”. Ora se si deve escludere una specie di fatalismo, di destino della nascita, a tale riguardo, si impone il problema della preesistenza, cioè la domanda, se quel che ci troviamo ad essere come uomini così e così determinati, di un dato temperamento, di una data razza, di una data classe, ecc., invece di esser un puro caso, possa collegarsi ad un’azione in qualche modo già “nostra” effettuatasi prima della nascita terrestre: tanto che il riconoscere la propria natura, l’accettarla e il volerla non sia passività, ma compimento di un’armonia profonda fra noi stessi e qualcosa di trascendentale e di superterrestre.
Da questo accenno, molti saranno portati forse a pensare alla “rincarnazione”, teoria messa in voga, in certi ambienti occidentali, dal teosofismo. Ciò sarebbe un grave equivoco. La teoria della rincarnazione, quale viene professata in tali ambienti, non è che una fantasticheria in sé contraddittoria, sorta dalla incomprensione e dalla deformazione di alcuni insegnamenti tradizionali. La teoria della preesistenza ne è ben distinta. Per venire ad una precisazione, bisogna rendersi ben chiaro a che cosa di noi può riferirsi l’eventuale preesistere o rincarnarsi.
È evidente che se noi parliamo dell’anima individuale, la sperimenta concretamente ognuno, e così come è determinata dalla sua inscindibile connessione ad un dato organismo corporeo, per un tale principio non ci è lecito porre problemi del genere. Per una tale anima vera sarebbe invece la dottrina cattolica, la quale, come è noto, sostiene che l’anima nasce a vita nel suo corpo e non gli preesiste. Ciò corrisponde ad un sano punto di vita realistico, giacché son fin troppe le circostanze dimostranteci che solo in correlazione col suo corpo e con lo sviluppo dell’unità psico-organica da esso condizionata l’individuo comune sente sé stesso: tanto che basta una interruzione anche parziale di quella correlazione – p. es. quale si realizza naturalmente col sonno – a che si scivoli nell’incoscienza. È così che la teoria della rincarnazione, nella misura in cui essa sostenga che lo stesso individuo possa aver già vissuto altre vite e potrà ancora apparire in altri corpi, è, come dicemmo, assurda: in diversi corpi non possono esistere che diverse individualità, senza una continuità reale, se non quella per dir così, di una stessa materia informe che, in diverse fusioni, dà luogo a statue assolutamente diverse e distinte.
Il difetto della dottrina cattolica sta nel confondere quest’anima puramente individuale, di cui sarebbe difficile concepire un qualunque sopravvivere, con l’“anima immortale” indistruttibile. È un difetto che sparisce in una considerazione più profonda, metafisica della dottrina, ricordando che quell’“inferno”, che sarebbe destinato alle anime “non salvate”, è la geenna, termine che però, originariamente, si applicava al luogo ove le scorie o i rifiuti vengono distrutti: allo stesso modo che l’“inferno” classico, l’Ade, era il luogo ove le anime “dei più” non sussistevano che in forma spenta, più simile alla morte e al sonno che alla vita e tanto meno che alla supercoscienza olimpica, privilegio degli “Eroi”.

Il signore della nascita

L’ipotesi della sopravvivenza può dunque porsi solo per un principio diverso da quello della semplice individualità legata al corpo, benché in una certa misura, mescolato e associato ad esso, insomma, l’io umano, come io avente una data natura propria, sarebbe l’effetto, la produzione, il modo di apparire sotto certe condizioni di esistenza, di un ente spirituale che lo trascende. E poiché tutto ciò che è tempo, prima o poi, è solo qualcosa di inerente alla condizione umana, così, di rigore, non si potrebbe nemmeno parlare di un preesistere, di una antecedenza temporale. Naturalmente, noi qui entriamo in un campo assai difficile, appunto perché ad esso non possono applicarsi le concezioni e le espressioni che ci siamo formati nell’esistenza comune quaggiù e che, riferito a tutto quel che è diverso modo d’essere, possono solo condurre a travisamenti e a deformazioni. Diremo, in ogni caso, che quel che sta prima del singolo in senso temporale, è piuttosto l’eredità dei genitori, della razza, di una data civiltà, ecc. Ma tutto ciò non esaurisce l’entità di un singolo, come lo vorrebbe il materialismo e lo storicismo: come determinante, si deve piuttosto concepire un intervento dall’alto, un principio, che assume e utilizza come sua materia di incarnazione o espressione tutta questa eredità, con le sue leggi e il suo determinismo, allo stesso modo che un musicista, per esprimere al sua creazione personale e originale, usa e accetta leggi ben determinate di armonia e spesso anche una certa tradizione musicale. Si ha dunque una specie di interferenza fra le eredità, terrestre, umana e storica l’una, e trascendentale, se così si può dire, l’altra. A stabilire il legame fra le due, e quindi a determinare la sintesi che definisce una data natura umana, interviene un avvenimento, dato nelle varie tradizioni con simboli varii, e che qui non è possibile trattar da presso. Diremo solo che l’insegnamento contenuto in tali tradizioni concerne una specie di legge: delle “affinità elettive”. Volendo chiarire tale idea con le applicazioni, cui dà luogo, diremo p. es. che non si è uomo o donna, di una razza o casta o di un’altra, perché così, a caso, si è nati, ma viceversa, così si è nati, perché già si era o ci si volle uomo o donna, di una data razza o di un’altra, ecc., naturalmente, in senso analogico, nel senso di una inclinazione o deliberazione trascendentale che noi, per mancanza di concetti adeguati, possiamo solo comprendere attraverso le conseguenze. Questo è il vero senso della cosiddetta legge del karma, o “legge dell’azione”, di cui in insegnamenti tradizionali indoeuropei, falsamente interpretati in senso di “rincarnazione”. Ecco un testo: «Secondo l’azione (karma), dall’essere riesce il riessere: ciò che uno fa, lo fa riessere. Eredi delle azioni sono gli esseri».
La veduta centrale del cattolicesimo è che Dio, pur creando l’uomo dal nulla, ha lasciato avvenire il miracolo, per cui questa natura creata dal nulla è libera, cioè può ricongiungersi alla radice del proprio essere, a Dio, ovvero negarla, dissiparsi, degenerare in un vano arbitrio di creatura. Questa stessa dottrina può venire applicata ai rapporti fra l’essere individuale e l’ente spirituale di cui esso è la creazione e la manifestazione umana. Vogliamo dire che l’essere individuale, entro certi limiti, fruisce parimenti di libero arbitrio e che a lui si pone la stessa alternativa: o volere la propria natura, approfondirla e realizzarla fino a ricongiungersi al principio super e pre-umano che vi corrisponde; ovvero darsi a costruire arbitrariamente un modo d’essere innaturale, privo di relazione con le sue forze più profonde o addirittura in contraddizione con esse. Questa è esattamente l’opposizione esistente fra l’ideale classico-tradizionale e l’ideale moderno di cultura. Per il primo, valore è conoscere ed essere sé stessi; per il secondo, valore è “costruirsi”, divenire quel che non si è, infrangere ogni limite per render possibile tutto a tutti. Ognuno vede come da problemi apparentemente astratti si venga a conseguenze assai concrete e perfino atte ad orientare fra il caos moderno dei valori.

Esseri in missione

Così come è stata tradizionalmente insegnata, la teoria della preesistenza porta dunque di là sia dal fatalismo che da una libertà male intesa e individualistica. In alcuni popoli, per designare l’essere vivente si usa un termine interessante che vuol dire letteralmente: «inviato in missione».
L’esistenza acquista veramente un senso quando si comincia a sospettar questo, ed è allora che sia il “Conosci te stesso” dell’oracolo di Delfi, sia quel “ricordarsi” di cui parla Platone, rivelano un contenuto vivente e risvegliano forze interiori ben precise. Qui si stabilisce anche la già accennata connessione fra il problema della preesistenza e quello della sopravvivenza. Uno degli insegnamenti antichi basati su quest’ordine di idee è che «compiendo fedelmente il proprio modo d’essere, qualunque esso sia, si consegue il divino, mentre mutando il proprio modo d’essere con quello di un altro ci si condanna agli inferni». È facile capire ciò: è evidente che nel costituire a sé quel che in sé non esiste, ossia la mera esistenza individuale arbitrariamente formata in un modo o nell’altro e vincolata al corpo, si ha solo un troncone, destinato a dissolversi col dissolversi della sua base, cioè dell’unità corporea e psico-fisica. Quando invece l’individuo realizza la propria natura, in fondo, egli unifica la propria volontà umana con la volontà non-umana corrispondente, ristabilisce un contatto con essa, ossia un contatto con ciò che, stando di là dalla nascita, sta altresì di là dalla morte e, in genere, dal tempo. Questo può dirsi lo stato della personalità vera e immortale, alla quale il significato del vivere costituisce cosa assolutamente diversa che non al resto degli uomini: un significato di chiarezza, di forza assoluta, di incomparabile sicurezza. Si ridesta il libero respiro delle altezze e del largo, la sensazione di esser giunti qui da lontano, da altre rive, da altri mari, tanto che tutto ciò che qui può apparir tragico, angoscioso, definitivo, si sdrammatizza, diviene un episodio il cui senso può venir colto solo dopo aver riconosciuto la relatività e l’irrilevanza del punto di vista dell’individuo umano.
Il riflesso di tali vedute trovò, in alcune tradizioni, espressioni suggestive, come questa: «La vita è un viaggio nelle ore di notte». Massima, che non va presa in senso malamente “spiritualistico” o “mistico”, i viaggi notturni essendo quelli in cui è massima la possibilità di smarrirsi o di esser sorpresi, specie poi quando il viaggio è anche una “missione”. Si deve piuttosto pensare ad una trasmutazione essenziale di atteggiamento, in virtù della quale al senso della “distanza” e dell’interna inaccessibilità si unisce una specie di indomabilità, e si ha quella contemporaneità di calma superiore e di prontezza all’azione assoluta e precisa, che è caratteristica in tutte le figure, nelle quali l’intuizione popolare presentì gli “uomini del destino”.

(«Il Regime Fascista», 24 gennaio 1937)