Evola e la psicanalisi: letture e ri-letture

«L’infezione psicanalista»

È con questa espressione che Julius Evola definì la penetrazione nel sensus communis occidentale della psicoanalisi moderna di matrice freudiana e dei suoi sviluppi, del tutto coerenti, a parer suo, nella prospettiva di Jung, Adler e Reich – sebbene sugli ultimi due, per certi versi, Evola espresse considerazioni assai meno ostili. È con questa espressione che è stato intitolato il volume che meglio ci permette di comprendere l’interpretazione evoliana della psicoterapia moderna, raccogliendo tutti gli scritti che il campione del Pensiero di Tradizione dedicò al tema nell’arco di quasi mezzo secolo di studi e approfondimenti[1]. Le stringenti critiche di Evola alla disciplina psicanalitica sono numerose, ma il loro nucleo potrebbe essere ricondotto al riconoscimento di una confusione terminologica che celerebbe, più in profondità, un grave errore teoretico e spirituale. Psicologia, psicoterapia e psicoanalisi, infatti, sono forme epistemologiche e terapeutiche che si rivolgono esplicitamente alla dimensione della psyché (ψυχή), ravvisando in essa il centro della personalità – conscia e inconscia – dell’uomo. Rifacendosi all’antropologia tradizionale, Evola rifiuta questa prospettiva, ritenendo la psyché un grado ontologico mediano fra il sòma (σῶμα), il corpo, e il noùs (νοῦς), l’intelletto, lo spirito sovrarazionale, superpersonale e sovrasensibile che procede al di là della dialettica e delle antinomie della logica dualista. Una conoscenza autentica, orientata all’Origine, dovrebbe quindi affrontare le problematiche dell’uomo, tanto in senso speculativo quanto operativo, a partire dalla consapevolezza della pluralità dei gradi del reale e dalla concentrazione – dai tratti ascetici – sulla dimensione noetica: la sfera dello Spirito in cui il vertice metafisico cosmico e l’interioritas hominis si congiungono, in una forma di trascendenza immanente. Qui, la psiche viene affinata, “in-formata” dal noùs. Obliando il noetico e rapportandosi esclusivamente allo psichico, la psicanalisi si macchia di riduzionismo antropologico: preclude all’uomo ogni possibilità di realizzazione interiore e interpreta ogni suo contrasto interno alla luce della sola dimensione dell’inconscio – ossia, in termini tradizionali, delle sfere infere e demoniache, sub-razionali, aliene a ogni possibilità di innalzamento iniziatico, permesso piuttosto dal solo grado di supercoscienza.

Se, pure, è possibile riconoscere alla psicoanalisi una certa efficacia terapeutica, questo non inficia, stando a Evola, il giudizio del tutto negativo che tale paradigma merita nei suoi aspetti teorici, antropologici ed epistemici, nella sua «filosofia della cultura»[2] soprattutto. Ponendo l’uomo “malato” come “misura” antropologica, la psicoanalisi perde di vista il singolo nella sua condizione “normale”, ossia in quello stato di centratura interiore e di unità spirituale che il sapere tradizionale pone come “misura di tutte le cose”. Così, precisa Evola,

«la psicanalisi quale “psicologia in profondità” può avere un valore positivo solo quando sia preceduta da una specie di “ascetica”, la quale a sua volta appare inconcepibile, priva di un qualsiasi punto di appoggio, quando per prima cosa non si respinga l’antropologia freudiana, la concezione freudiana dell’uomo, la quale (…) è caratterizzata dalla denegazione e dal disconoscimento dalla realtà e dalla possibilità dell’Io quale principio centrale e autonomo»[3].

La psicoanalisi conduce l’uomo a identificare il fulcro della propria essenza nelle regioni subpersonali, nelle «fenditure infernali»[4]. «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo»[5] scriveva Freud citando l’Eneide. La noologia tradizionale, quella perseguita da Evola, insegna la centratura dell’Io, la costruzione di legami sintonici fra microcosmo e macrocosmo e, soprattutto, l’assunzione trasfigurante di uno sguardo assoluto sul mondo: «Se l’uomo cambia il proprio essere, allora percepirà la stessa realtà in altre forme»[6].

Odi et amo: il mago e gli psicanalisti

È interessante svolgere alcune considerazioni sulla ricezione del pensiero evoliano presso la psicologia contemporanea. Se Evola ha letto e annotato la psicoanalisi, anche quest’ultima, seppur solo con alcuni studiosi eccentrici[7], ha letto e annotato Evola.

Fra i più validi ricercatori che si sono confrontati con questa tematica va indubbiamente annoverato Adriano Segatori, psichiatra, membro della sezione scientifica “Psicologia Giuridica e Psichiatria Forense” e studioso di tradizionalismo. Secondo Segatori, il Pensiero di Tradizione in genere – e quello di Evola nello specifico – è essenzialmente incompatibile con la psicoanalisi di matrice freudiana e junghiana, in quanto tali approcci risultano fondati su premesse antropologiche, metafisiche ed epistemiche totalmente divergenti. Opponendo psicoanalisi e pensiero tradizionale Segatori puntualizza: «Per entrambe l’emotività, la pulsionalità, l’istintualità sono caratteristiche umane del corpo e della mente, solo che per la prima esse devono venire ridimensionate all’interno di una ragione dialettica, per la seconda, invece, esse possono venire superate soltanto con una disciplina che porti ad un equilibrio interiore attraverso l’imperturbabilità superiore e la saldezza etica»[8]. Alla condizione intellettiva dell’analisi psichica si oppone quella dell’ascesi tradizionale: «La prima, mentale, sensitiva, dialogica, sentimentale; la seconda metafisica, esperienziale, analogica, ascetica»[9]. Una rettifica in senso tradizionale di questa disciplina è stata condotta, secondo Segatori, da James Hillman: la sua psicologia archetipica, ribaltando l’orientamento psicanalitico “classico” – «il mio modello di crescita ha le radici nel cielo e immagina una graduale discesa verso le cose umane»[10] – rappresenta l’unica opportunità contemporanea di un incontro fra le due Weltanschauungen[11]. Anche il pensiero junghiano, migliore di quello freudiano, può essere parzialmente ricompreso in senso tradizionale, ma solo considerando che «Jung si avvicina alla Tradizione se purificato dalle basi interpretative psicopatologiche, e la Tradizione si avvicina a Jung con gli strumenti decontaminanti della sua dottrina iniziatica»[12].

Più aperti a un dialogo fra pensiero evoliano e orientamento junghiano sono invece altri due studiosi: lo psicoterapeuta Claudio Risé e l’analista filosofo Roberto Cecchetti.

Risé ravvisa infatti una connessione sintonica nell’antimodernismo dei due autori e attribuisce loro, valorizzando in senso forte, ontologico, la formulazione junghiana dell’inconscio collettivo. Ad essa si connette la necessità di un oltrepassamento dell’individuo atomizzato, frutto tardivo dell’antropocentrismo umanistico, mediante la chiarità metafisica dell’Archetipo. Per Risé, Jung ha «svelato l’insicurezza dell’Io imperiale della modernità borghese, che nulla può se non aprendosi all’autentico centro della personalità conscia e inconscia, il Sé, ricettacolo delle immagini archetipe, rappresentazioni di quel “sovramondo” di cui parlava Evola»[13]. In questa prospettiva, Io (nella sua dimensione moderna atomizzata) e Sé vengono considerati, più che secondo le topiche freudiane, in senso mistico, tanto da risultare quasi omologhi alle nozioni indiane di Ātman e Brahman. L’affinità fra Evola e Jung, dunque, sarebbe significativa, benché non afferrata dal filosofo italiano.

«Abbastanza incomprensibilmente, dal punto di vista dei riferimenti testuali, ma anche delle vicende storiche – spiega Risè –, Evola attribuisce (…) al fondatore della “psicologia analitica” una concezione “psicologico-proiettiva” dei princìpi maschile e femminile, confondendo gli archetipi junghiani, che lo psicologo svizzero definiva “fatti” e “tipi originari attivi nell’inconscio delle varie razze”, con immagini intrapsichiche, soggettive, quelle sì legate a una dinamica proiettiva, e cangianti nel corso del processo individuativo. Un’occasione perduta»[14].

A raccogliere e valorizzare questa simmetria interviene la riflessione di Roberto Cecchetti, il quale, tuttavia, centrando la propria ermeneutica sull’esperienza idealista di Evola, porta la discussione a un livello più specificamente teoretico: ravvisando nella connessione fra libertà, volontà e desiderio una chiave speculativa ed esoterica per comprendere, in termini magici, tanto la filosofia anti-necessitante di Evola, il suo «pensiero della libertà»[15], quanto il Grund speculativo alla base del paradigma junghiano, egli riflette sulla comprensione energetica del fondamento del reale in termini di libido, in senso non pansessualista (à la Freud), bensì come volontà idealista di creare il mondo, di spezzare i vincoli del destino, heimarméne (Εἱμαρμένη)[16]. L’Io risulta così, in questa lettura del parallelo Evola/Jung, trasfigurato e potenziato in senso iniziatico. Lo psicologo tedesco Erich Neumann permette inoltre, secondo Cecchetti, un arricchimento fruttuoso di questo percorso teso fra psicoterapia e metodo mitico-simbolico.

Se, insomma, gli psicanalisti e studiosi di orientamento freudiano non possono accostarsi, col loro metodo materialista, meccanicista e razionalista, al dominio della Tradizione, una sensibilità di tipo junghiano risulta più feconda, ancorché spesso in modo soltanto parziale o sincretico, a un avvicinamento alle frontiere dell’Ineffabile.

Sarà utile ricordare, infine, che anche la Metafisica dell’Eros formulata da Evola è stata oggetto di acute riflessioni di tipo psicologico, da parte di Fausto Antonini, compianto Professore di Antropologia Filosofica all’Università “La Sapienza” di Roma. Dal suo saggio introduttivo a Metafisica del Sesso traspare la piena accettazione della diagnosi evoliana della modernità e, in particolare, delle riflessioni sulla degenerazione della polarità originaria maschile/femminile. Con esiti davvero politicamente scorretti: «Questa donna, che ha delle ricchezze biologiche e psichiche immense, ha voluto, per valorizzarsi, scimmiottare non solo l’uomo, ma il peggio dell’uomo: la sua cretina pretesa, che mai poi non esegue, di essere single e autosufficiente (ah!ah!), il gioco del potere e il potere stesso»[17]. Parole – per molti – ancor più inaccettabili oggi, a quasi trent’anni di distanza dalla formulazione di Antonini, nell’odierna “era delle streghe”[18].

Lo studioso corregge parzialmente la polarità metafisica evoliana, ancora una volta riferendosi alla teorizzazione junghiana e, nello specifico, alle nozioni di imago e animus: «A me pare piuttosto che il femminile sia da rintracciarsi non solo nella donna, ma anche nell’uomo – spiega –, e non in senso negativo, quasi attentato alla virilità dell’uomo, ma in senso di completezza. E così il maschile o il virile sia da rilevarsi anche nella donna, e qui in senso negativo»[19].

D’altra parte, l’apprezzamento per la comprensione evoliana delle perversioni e della repressione sessuale e l’elogio di numerosissime sue felici intuizioni portano Antonini a concludere liricamente:

«In ogni bambino che rinasce, rinasce un Reich, rinasce un Evola, rinasce cioè la possibilità, subito soffocata naturalmente, però, di una vita che affidi a un istinto collegato con lo spirito, che è lo spirito stesso, lo sviluppo, la scoperta, la crescita e l’espansione della vita stessa»[20].

Un ritratto del «guerriero immobile»[21]

È possibile, infine, tracciare un ritratto psicologico di Julius Evola? La sua personalità, che le testimonianze di quanti lo conobbero tratteggiano in modo assai discorde, era evidentemente ricca, complessa e proteiforme. Anche estrosa, se si pensa alla sua costante attitudine a rifuggire le masse e a épater la bourgeoisie – dalle unghie laccate di verde dell’epoca Dada al disprezzo per i costumi moderni della pubblicistica post-Seconda guerra mondiale.

La sua ben nota centratura interiore induce inoltre a ritenere che le variazioni attitudinali documentate non coincidessero con disturbi della personalità o con una volubilità d’impronta lunatica, segnalando piuttosto una profonda capacità di comprensione delle vibrazioni sottili dell’“altro”. Una percezione sovrasensibile che accompagnava la sua esperienza personale quotidiana[22]. E una dote che si esprimeva di conseguenza, in un modellamento caratteriale funzionale a corrispondere adeguatamente all’interlocutore.

«Il suo aristocratico profilo aquilino»[23], la sua viva immersione nelle vette metafisiche, non sono allora contraddittori rispetto alla sua affabilità quotidiana, che si rivela, ad esempio, nel fatto che Evola parlava «con calore inserendo volentieri la battuta»[24], e ha dato esempio di comportarsi «come un vecchio amico, senza prosopopea e saccenteria o atteggiamenti da “guru”»[25]; in ultima istanza, spiega Gianfranco de Turris, nei colloqui da lui concessi «si comportava come un maestro zen o sufi (…): diceva cose assurde, usava espressioni paradossali, provocatorie, estreme, quasi, così provocando, voler sondare le reazioni di chi aveva davanti, come a volerlo saggiare, sondare, osservare le reazioni esteriori, ma anche interiori»[26]. Ironico con i fanatici, serio ma cordiale con gli uomini di rango: anche questa fu una peculiarità dell’avventura emblematica[27] della biografia intellettuale e spirituale di uno dei più grandi interpreti italiani del Canone Universale.


[1] Cfr. Julius Evola, L’infezione psicanalista. Scritti sulla psicanalisi 1930-1974, introduzione di Adriano Segatori, Controcorrente, Napoli 2012.

[2] Julius Evola, Critica della psicanalisi (1930), in ivi, p. 68.

[3] Julius Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, con un saggio introduttivo di Hans Thomas Hakl, Edizioni Mediterranee, Roma 2008, p. 78.

[4] Cfr. René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, trad. it. di Pietro Nutrizio e Tullio Masera, Adelphi, Milano 1995, pp. 223-29.

[5] «Se non posso piegare gli dèi del cielo, smuoverò quelli degli Inferi».

[6] Julius Evola, Autobiografia spirituale, a cura di Andrea Scarabelli, Edizioni Mediterranee, Roma 2019, p. 58.

[7] A dimostrazione del rigido e monotonico dogmatismo di certa psicologia contemporanea si rimanda alla formidabile polemica di Gianfranco de Turris: Gli psicologi tra vecchie e nuove dittature: il diktat contro Evola, in «Barbadillo», 6/6/2017 (http://www.barbadillo.it/66348-il-caso-di-g-de-turris-quando-gli-psicologi-leggevano-evola/).

[8] Adriano Segatori, Psicoanalisi e Tradizione. Antinomie – Contaminazioni – Opportunità, in Julius Evola, L’infezione psicanalista, cit., p. 22.

[9] Ibidem.

[10] James Hillman, Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino, trad. it. di Adriana Bottini, CDE, Milano 1998, p. 22.

[11] Segatori riserva anche alcuni apprezzamenti all’orientamento etnopsicologico di Tobie Nathan e Georges Devereux (cfr. Adriano Segatori, Psicoanalisi e Tradizione. Antinomie – Contaminazioni – Opportunità, cit., pp. 39-40).

[12] Ivi, p. 63.

[13] Claudio Risé, La sessualità come via per l’autorealizzazione nella Metafisica del Sesso di Julius Evola, in AA.VV., Julius Evola. Un pensiero per la fine del millennio, Fondazione Julius Evola, Roma 2001, p. 82. Cfr. anche Claudio Risé, Julius Evola, o la vittoria della Rivolta, in Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 2010, p. 18.

[14] Ibidem.

[15] Cfr. Massimo Donà, Un pensiero della libertà. Julius Evola: filosofia e magia al cospetto dell’impossibile, in Julius Evola, Fenomenologia dell’Individuo assoluto, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, pp. 13-33.

[16] Cfr. Roberto Cecchetti, Libido, il desiderio come fondamento della realtà, in «Giornale Critico di Storia delle Idee», n. 15/16, 2016, pp. 155-76.

[17] Fausto Antonini, Riflessioni sulla “metafisica del sesso” di Julius Evola, in Julius Evola, Metafisica del Sesso, Edizioni Mediterranee, Roma 2009, p. 17.

[18] Cfr. Francesco Borgonovo, L’era delle streghe. Cronache dalla guerra del sesso, prefazione di Claudio Risé, Altaforte, Roma 2019.

[19] Fausto Antonini, Riflessioni sulla “metafisica del sesso” di Julius Evola, cit., p. 18. Di parere quasi opposto è Claudio Risé, secondo cui: «La visione del maschile e del femminile in Evola riveste grande interesse anche per la psicologia del profondo perché più precisa (…) dell’identificazione che compie lo stesso C.G. Jung del maschile col logos, e del femminile con eros. Sia perché esiste anche un eros specificamente maschile (di orientamento uranico, oppure ctonio, verso la terra). Ma soprattutto perché non sempre il femminile coincide con l’eros» (La sessualità come via per l’autorealizzazione nella Metafisica del Sesso di Julius Evola, cit., p. 86).

[20] Fausto Antonini, Riflessioni sulla “metafisica del sesso” di Julius Evola, cit., p. 23.

[21] Così Gianfranco de Turris definisce efficacemente Evola nella nota introduttiva a Julius Evola, Sacro, mito, religione. Lettere a Mircea Eliade (1930-1962), a cura di Claudio Mutti, presentazione di Giovanni Casadio, Fondazione Evola-Pagine, Roma 2018, p. 7.

[22] Cfr., ad esempio, la lettera di Julius Evola a Erika Spann del 12 maggio 1946 (in Studi Evoliani 2017. Evola 120. Il pensiero tradizionale nel XXI secolo, Fondazione Evola-Arktos, Roma-Carmagnola 2018, pp. 187-90)

[23] Jean-Michel Angebert, L’itinerario spirituale di Julius Evola, in AA.VV., Testimonianze su Evola, a cura di Gianfranco de Turris, Edizioni Mediterranee, Roma 1985, p. 29.

[24] Sigfrido Bartolini, Una presenza inquietante, in ivi, p. 38.

[25] Gianfranco de Turris, Evola? Né eccentrico, né “guru”: de Turris racconta gli incontri col filosofo, in «Secolo d’Italia», 22/1/2018 (https://www.secoloditalia.it/2015/01/bersani-140-parlamentari-renzi-deciditi-vuoi-lunita-oppure/).

[26] Ibidem.

[27] Cfr. Massimo Cacciari, Un’avventura emblematica, in AA.VV., Testimonianze su Evola, cit., pp. 220-23.