Evola antimoderno. Un assioma evidente per ogni suo attento lettore. Un’espressione che, tuttavia, per rendere merito alla potenza ermeneutica e propositiva della posizione evoliana, necessita di un chiarimento: se Evola fu indubbiamente campione di una critica, acuta e serrata, alla modernità, lo fu essenzialmente in quanto moderno, ossia come esponente di quel Tradizionalismo integrale e perennialista la cui stessa origine si colloca nello strappo metafisico strutturale al tempo storico – quanto mai lontano dall’età del mito – che la tradizione indiana chiama kali yuga. Come altri esponenti della letteratura della crisi, Evola muove una polemica penetrante alla sua contemporaneità, ravvisandone con efficacia le storture e degenerazioni, mettendone in luce le contraddizioni e le intrinseche fallacie. In questa serrata rivolta contro il mondo moderno, Evola non può d’altra parte uscire dal proprio esserci, storicamente gettato in quella stessa modernità da cui vorrebbe distaccarsi. Ma proprio facendosi carico di questo portato moderno – a nostro parere con una profondità abissale, assente in molti altri cosiddetti “antimoderni” – assume una missione affatto reattiva, operando una trasvalutazione che, utilizzando il linguaggio di Gilles Deleuze a proposito di Nietzsche, «significa affermazione in luogo di negazione, anzi, negazione trasformata in potenza di affermazione».
L’antimodernismo evoliano fu indubbiamente critica alla demonìa dell’economia, alla democrazia, al pansessualismo, nonché dura polemica nei confronti del materialismo, di bolscevismo e americanismo – due facce della stessa medaglia – e delle forme degeneri delle “seconde religiosità”. Ma a fianco, o meglio, al nucleo stesso di questi rilievi – peraltro di estrema e inattuale attualità – vi è un antimodernismo raffinato e abissale, in cui i dualismi filosofici si stemperano nella nuda e concreta potenza del reale, cui solo si può accedere tramite i domini del sacro, del mito e del simbolo. Il pensiero analogico e tradizionale evoliano diviene così metodo, come acutamente osservato da Walter Heinrich. Ossia assurge, al di là dei motivi specifici di rifiuto della modernità, a preparazione – nel foro esteriore come in quello interiore, nel microcosmo inscindibile dal macrocosmo – di quella trasfigurazione in cui storia e sovrastoria, visibile e invisibile, immanenza e trascendenza, materia e spirito non sono più percepiti nella diabolica scissione della modernità.
La prospettiva evoliana si assume così la responsabilità del superamento della visione del mondo analitica, colpevole di dissezionare e parcellizzare il reale, rivendicando la possibilità, sempre vigente nell’estatica potenza dell’attimo, di «strappare i veli con cui Apollo nasconde la realtà originaria, osare di trascendere la forma per mettersi a contatto con l’“atrocità” originaria di un mondo in cui bene e male, divino e umano, razionale e irrazionale, giusto e ingiusto non hanno più alcun senso essendo soltanto potenza, nuda, libera potenza fiammeggiante». Queste parole, tratte da L’individuo e il divenire del mondo (1926), attraversano come un fil rouge l’intera riflessione evoliana, tracciando un periplo in cui l’«agitazione arbitraria» dell’esperienza dadaista prepara, oltre ogni forma di accelerazione nichilista e dissoluzione reattiva, la risoluta affermazione della possibilità di un orizzonte altro: «Un classicismo nuovo, liberato dall’Io, fatto d’azione e della volontà di “un realismo sempre più reale”». È evidentemente un mutamento di sguardo: un’ambiziosa e radicale metanoia in cui la modernità e il suo tessuto progressista si trasfigurano in una temporalità sferica. Qui, linea e cerchio si fondono nella perenne insistenza dell’Origine, che è eterna non in quanto Ewigkeit (durata senza fine) ma Zeitlose (l’eterno al di fuori del tempo), l’Unum che precede la distinzione delle forme.
L’antimodernismo evoliano si configura dunque come un invito a recuperare la percezione della qualità delle cose, ad ascoltare l’Abgrund, il fondo primordiale, e il suo richiamo incessante, rifiutando i dogmi del modernismo senza però ignorare un confronto serrato con la modernità – inalienabile condizione di partenza, premessa metafisica alla stessa comprensione dialettica e non più intuitiva del reale. Evola prende così le mosse da una filosofia col martello diretta a sgretolare il moderno, a rilevarne l’inconsistenza confrontandosi con le immagini che di quest’era oscura la Kulturcrisis ci ha efficacemente trasmesso: epoca abitata dall’ospite inquietante che è il nichilismo (Nietzsche), segnata dal trionfo della Zivilisation sulla Kultur (Spengler), regno della quantità (Guénon), saeculum dell’errore egoaltruistico (De Giorgio).
Alla pars destruens, ottimo compendio e approfondimento delle istanze sopra citate, segue sempre una pars construens: antimodernismo non significa passatismo o sterile conservatorismo, piuttosto iter iniziatico nelle fondamenta stesse del moderno per tendere a quell’Origine di cui lo sguardo simbolico – stereoscopico, direbbe Ernst Jünger – è via regia. La Tradizione è sempre dinamica e processuale, è fiamma viva mai fissata, è potenza decostruttiva e, insieme, propulsiva dell’incondizionato. La Tradizione ad-viene quando ci si abbevera al Principio, e l’ermeneutica mitico-simbolica che gli studi di Evola lasciano individuare è primariamente una metodologia per ritrovare il Tutto nel frammento, lungo quel cammino di coincidentia oppositorum che, da Cusano a Mircea Eliade, è tema centrale della filosofia della religione.
Simbolo e mito si rivelano essere le strutture fondanti di questo avvicinamento al divino, a quella dimensione che, nella sua nuda potenza, sempre di nuovo domanda un riconoscimento. Quel mutamento di sguardo capace di vedere l’Uno nel due, giacché il divino, come spiega Roberto Calasso, «non è come una roccia, che tutti inevitabilmente vedono. Il divino deve essere riconosciuto. E il riconoscimento è l’atto supremo verso il divino. Atto sporadico, momentaneo, non trasponibile in uno stato. “Incessu patuit dea”, il divino è come il passo di una dea, che si fa avanti e subito va oltre».
In un mondo di non vedenti, l’antimodernismo evoliano realizza la visione dell’orma della dea nel friabile suolo della nostra modernità.