Quando Evola faceva arte d’avanguardia con tanto di monocolo e unghie laccate

Roma, primi anni Venti. Le atmosfere stranianti della musica dodecafonica di Arnold Schönberg fanno da sfondo al più esclusivo club della capitale, la risposta italiana al Cabaret Voltaire di Zurigo: si chiama «Le grotte dell’Augusteo» ed è un locale ricavato nel mausoleo di Augusto. Entra un giovane: slanciato, indossa uno smoking, porta un monocolo e ha le unghie laccate di verde. Si dà un tono sprezzante, che ad alcuni incute magnetismo, ad altri semplice antipatia. Si siede davanti a un tavolino con decorazioni alchemiche: lo ha dipinto lui. È Julius Evola, il principale esponente del dadaismo italiano, destinato, da lì a qualche anno, a diventare penna scomoda del regime fascista, poi pensatore prediletto dal neofascismo e oggi, a quarantacinque anni dalla morte, eterno spauracchio del pensiero dominante, l’unico inassimilabile tra le grandi firme del pensiero di destra.
L’Evola artista e teorico dell’arte ha sempre attirato meno curiosità del pensatore politico, sia da parte dei lettori «amici», bisognosi di una Weltanschauung pronta all’uso, sia da parte di quelli «nemici», alla ricerca della «pistola fumante» di una filosofia dello sterminio. Il risultato è un’immaginetta incartapecorita e stereotipata, che riduce a pochi e mal compresi concetti un pensatore di notevole complessità e stratificazione. A rendere giustizia al personaggio ci pensano ora le edizioni Mediterranee, che hanno appena dato alle stampe un volumone che fa il punto in maniera esaustiva sull’Evola artista.
Si intitola Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia ed è un libro che racchiude in sé almeno tre o quattro libri. Nel saggio sono infatti raccolti i manifesti teorici e gli scritti del periodo artistico di Evola, la riproduzione anastatica del saggio Arte astratta, con tanto di impaginazione dadaista originale, le poesie dell’autore romano, le sue lettere al fondatore di Dada, il romeno Tristan Tzara, e un catalogo dei quadri certamente attribuibili a Evola. Un’opera colossale, quindi, la cui elaborazione è durata anni e ha impegnato, sotto la guida dell’infaticabile Gianfranco de Turris, circa una decina di studiosi.
Se le incursioni evoliane nel mondo dell’arte sono state spesso trascurate dal grosso degli appassionati del pensatore tradizionalista, del resto, lo stesso non può dirsi per il mondo degli intenditori d’arte in senso lato. Basti pensare che, ancora nel 2016 e nel 2017, due quadri di Evola sono stati venduti con aggiudicazioni d’asta superiori ai centomila euro. Non solo. Sempre nell’ultimo periodo, come spiega nell’introduzione Carlo Fabrizio Carli, c’è stata una vera e propria «offensiva contraffattiva»: molte opere false hanno cominciato a infestare il mercato. Il che è ovviamente un male, perché il fenomeno, oltre a essere reato, inquina le acque, ma in qualche misura è anche un buon segno del rinnovato interesse per l’Evola pittore, dato che non si falsifica quello che non interessa più a nessuno.
Anche se non smise mai di dipingere nel corso di tutta la sua vita (disegnò anche diverse copertine dei suoi stessi libri), la vera e propria fase artistica di Evola finisce intorno al 1921, quando prima la filosofia pura, poi gli studi sulla tradizione acquisiscono posizione centrale nel suo mondo interiore. Già diciottenne, lo si era visto frequentare lo studio di Giacomo Balla. Il flirt con i futuristi dura poco: Filippo Tommaso Marinetti definirà le sue idee «più lontane dalle mie di quelle di un eschimese». L’avanguardia inaugurata da Tzara, invece, garantiva non solo maggiore libertà formale, ma anche un più stretto rapporto con l’elementare, con la dimensione delle nude forze che interessavano a Evola.
È esattamente ciò che si riflette nei suoi quadri, come colse un interprete importante come Adriano Romualdi, che così li descrisse:

«Globi colore del ferro rovente o magneticamente verdi come l’acetato di rame ardono di luce irreale sotto cieli devastati; cilindri roteano come officine avvampanti nella notte; forme di luce ascendono nell’azzurro mentre dal basso zampillano torbide nubi di fuoco. È una potente visione dell’elementare colto mediante il linguaggio delle forme geometriche in uno spazio invisibile generatore di quello visibile, simile al platonico iperuranio o al goethiano mondo delle madri».

Nel suo Manifesto saccaromiceto, del 1920, scrive cose come: «Dada è il simbolo dell’antiumanità», «Dada è la negazione degli impulsi naturali e dell’intelletto; è la vita fredda e atona senza occhi né bocche». L’antiumano come via d’accesso al preumano. E, una volta spezzate le catene dell’esistenza ordinaria, «umana, troppo umana», ecco baluginare l’apertura al sovrumano. C’era già tutto Evola.

(«La Verità», 22 gennaio 2019)