Attraverso e di là da Nietzsche

Par delà Nietzsche fu pubblicato in lingua francese sulla rivista 900. Cahier d’Italie et d’Europe, n. 2, Cahier d’hiver 1926-1927, edito da La Voce, e diretta da Curzio Malaparte e Massimo Bontempelli. Secondo quanto scrisse lo stesso Evola ne Il cammino del cinabro (p. 72), tradito sicuramente dalla memoria, il testo sarebbe stato pubblicato come seconda parte de L’individuo e il divenire del mondo – il che è vero solo parzialmente. Lo scritto, infatti, costituì originariamente il testo della conferenza tenuta da Evola il 6 dicembre 1925, Nitsche [sic] e la Sapienza dei Misteri (apparso in Ultra, XIX, nn. 5-6, 1925), e si è sempre ritenuto che coincidesse con il saggio Dioniso, pubblicato in Ignis (nn. 11-12, novembre-dicembre 1925), poi come seconda parte de L’individuo e il divenire del mondo e tradotto appunto in francese da un anonimo “R. G.”. Successivamente Evola lo rielaborò e ristampò con il titolo Dioniso e la «Via della Mano Sinistra», in Vie della Tradizione (III, n. 10, aprile-giugno 1973), per confluire infine in Ricognizioni. Uomini e problemi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974.
In realtà, solo la seconda metà di Par delà Nietzsche si ritrova nella seconda parte di L’individuo e il divenire del mondo, peraltro con diverse e significative modifiche. La prima sezione del saggio in lingua francese è dunque rimasta sinora paradossalmente inedita in lingua italiana. Una volta riconosciuto che il testo è stato comunque rivisto e rimaneggiato da Evola, abbiamo pensato di darne una nostra versione, grazie all’aiuto insostituibile della professoressa Lucia Cametti.
Un’avvertenza linguistica. In francese “par” esprime anche la nozione di “attraverso”, il che rispecchia il significato del testo: un “attraversare” Nietzsche per andare “al di là” di Nietzsche stesso. Ecco il motivo del titolo scelto per questa traduzione. Avverto inoltre il lettore che mi sono preso la libertà di tradurre “raison centrale” con “ragione universale” e “feu central”, dato il contesto “eracliteo”, con “ecpirosi cosmica”.
Infine, azzardiamo un’ipotesi: l’anonimo “R.G.” potrebbe essere lo stesso Evola; quale altro traduttore avrebbe potuto sostituire, infatti, senza un’intenzione precisa, “teurgia” con “magia” e “iniziazione” con “realizzazione”?

Giovanni Perez

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Due destini, due forze irriducibili si scontrarono e si manifestarono diciannove secoli fa, mentre l’una e l’altra si lanciavano alla conquista dell’Occidente e raccolsero l’eredità dello splendore romano: il cristianesimo e il mithraismo.
Mithra: il Dominatore del «Sole», l’uccisore del «Toro», l’emblema d’una razza regale rigenerata nella «forza forte delle forze», dei Conquistatori, degli esseri senza «bene» né «male», senza «bisogno», senza «desiderio», senza «passione».
Il cristianesimo: voce degli schiavi, di una razza turbata dall’essere problematica, malaticcia, di miserabili che agitano il bisogno di amare, di credere, di abbandonarsi, di perdersi; gente nemica di sé stessa, nemica del mondo, fanatica, livellatrice, mortale per tutto ciò che è forza, fierezza, saggezza, aristocrazia. La lotta tra queste due razze, lungi dall’essersi esaurita, non comincia veramente che oggi.
Il vantaggio dei cristiani all’inizio della «loro» èra non è stato, in effetti, che solo in superficie: la tradizione regale e solare dei Misteri da una parte si è tramandata di fiamma in fiamma, da iniziato a iniziato in una catena ininterrotta e segreta, mentre, nel contempo, attraverso influenze sottili, essa agiva sulle grandi correnti della storia occidentale. Oggi essa affiora nuovamente in piena luce negli sforzi ancora confusi, negli esseri spezzati sotto il peso di una verità che supera ancora le loro forze, ma che altri sapranno riprendere e imporre: e quando poi si rivelerà totalmente, in essa riconosceremo il senso vero e profondo di una tradizione – da Descartes fino all’idealismo più recente – e noi la vedremo nuovamente ergersi in tutta la sua altezza, dura, fredda, di fronte al suo avversario.

Quest’ultimo d’altronde non corrisponde più a ciò che attualmente resta della religione cristiana, binario morto distaccato dallo slancio più profondo che, dopo aver corrotto la grandezza romana, si accanì – attraverso la Riforma – a infettare la razza bionda dei conquistatori germanici per morderne poi il nucleo più essenziale. No, il cristianesimo oggi agisce nella struttura della nostra società, nella scienza moderna, nell’illusoria potenza meccanica. Queste tre conquiste di cui s’inorgoglisce la civilizzazione dell’Occidente sono dominate l’una come l’altra dall’idea democratica, nemica della qualità, esaltatrice della quantità, micidiale per tutto ciò che è valore e individualità.
E ancora: preso nella sua radice di «passione», di attività ebbra e passiva quale si determinò nella promiscuità delle plebi dell’Impero, all’opposto della calma superiorità dei dominatori, della maestà dorica del vincitore pindarico, il cristianesimo oggi germoglia anche nell’irrazionale dello «slancio vitale», nello slancio caotico dell’«attivismo» contemporaneo, entità di una trascendenza bruta che sommerge l’individuo, spingendolo e trascinandolo verso ciò che rifiuta e che attualmente è adorata ed è diventata una religione: «religione della Vita», «religione del Divenire».
Tale è la realtà spaventosa del cristianesimo nei tempi attuali in cui viviamo: potenza fatale, oscura, che ci stringe sempre più da vicino, che ha lo sguardo sul nemico e si sforza proditoriamente di assorbirlo e di corromperlo. Ma, di fronte a questa, ecco i precursori di una nuova razza, i lampadofori: Stirner, Weininger, Michelstaedter, Otto Braun, Dostojewsky. E, al centro, più in alto di tutti: Friedrich Nietzsche. Primo eroe ferito nella battaglia, ma soltanto affinché la fiamma che a lui era stata tramandata potesse risplendere più aspra e più diffusa.
Nietzsche. Nietzsche che non è il misero eroe dannunziano Corrado Brando, Nietzsche che non ha nulla a che fare con le parodie estetico-letterarie, muscolari o «baionettistiche» che hanno abusato del suo nome. Un Nietzsche persino di là della sua filosofia, di là della sua «psicologia», di là della sua umanità, di là da Nietzsche stesso, identificabile con un valore cosmico, con una forza eònica, con l’«Ur», il Fuoco terribile delle iniziazioni magiche: forze che Nietzsche, malgrado tutto il suo essere che si ribellava e cedeva, ha saputo eroicamente sostenere al prezzo di sofferenze inaudite, fino a che, senza un lamento, dopo aver dato tutto, crollò.
Questo Nietzsche attende ancora d’essere compreso. In lui sono l’allarme, il richiamo al disgusto, alla rivolta, al Grande Risveglio – e alla Grande Lotta: quella in cui si deciderà il destino dell’Occidente – se verso un crepuscolo o verso un’aurora.
Perché bisogna che lo si sappia: non è in realtà la lotta di una forza contro un’altra forza, ma la lotta della forza contro la negazione della forza – della volontà che afferma contro la fiacchezza e l’abbandono, contro la sconfitta dell’Io, contro l’oscura pesantezza di colui che si paralizza e degenera – e vuole la degenerazione, vuole la decomposizione.

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Una vita sufficientemente forte per non credere, per sussistere senza inventare Dio – questo è il principio. Il passaggio attraverso un nichilismo assoluto – questa direzione verso la quale s’incammina l’Europa, sebbene resti un futuro lontano – ecco il fuoco purificatore di cui non si saprebbe in alcun modo fare a meno, anche se fatalmente procurerebbe con la rigenerazione di alcuni la catastrofe per altri.
Il desiderio che tutto si lasci ridurre ad un principio d’ordine, d’armonia e di bontà, e il bisogno che l’oggetto di questo desiderio sia – e debba essere, e che così si possa abbandonare, e che così si possa evitare di imporsi, di crearsi da sé stesso come essere che sia «sufficiente a sé stesso» – che si trovi dispensato dall’essere e dal volere, ecco la logica della fede, la radice fragile dell’ottimismo.
Da qui, come conseguenza inevitabile, l’invenzione della realtà trascendente di un «altro»: la verità, la realtà, il valore sono concepiti come l’«altro», fatalmente. Dal momento che l’esperienza effettiva è spinta a concludere che il mondo così come ci è dato non ha nulla di ordinato, di buono, di razionale, gli uomini che per sopportare l’esistenza hanno bisogno di tutto ciò, devono rapportarsi a un altro mondo, a un’altra realtà, credere che essa è, e al tempo stesso opporla come l’«Essere» par excellence contro tutto ciò che non vuole rientrare nella prospettiva dell’ideale ottimistico e che in ragione di ciò si stabilisce lontano dalla realtà, ridotto al rango di apparenza e di non-essere; o di male. Tale è l’«ideale ascetico»: fuga dal mondo, condanna del mondo. Tale è la «volontà d’illusione»: ciò che, essendo puramente un oggetto del bisogno e della speranza, è senza realtà, nega la realtà di ciò che realmente è. «Dio esiste perché mi è necessario». «Il mondo non esiste perché esso è un non-valore» – come se la fame non potesse restare fame, il desiderio, desiderio eternamente inappagato – desiderio senza oggetto!
La situazione non cambia affatto quando l’allucinazione creata per preservarsi da questa possibilità orrenda si riveste di diversi orpelli: quando la fede non è più in un Dio dei cieli ma nel Bene – nell’Umanità – nella Verità – nella Scienza; è sempre la stessa impotenza di volere la realtà, lo stesso bisogno di credere in qualche cosa – cioè: di stordirsi, di placare la paura che prova una vita che soffre e che sfugge la coscienza di ciò che essa è. E ogni idea o «teoria» che vuole spiegare l’irrazionale e così annullarlo, che consente di concepire tutto ciò che è guerra, individuazione, scontro di forze irriducibili nella loro volontà di dominio, contingenza, problema senza soluzione – come qualche cosa d’inesistente o d’esistente al solo titolo di apparenza «soggettiva» – proviene ugualmente da ciò che non è «vita sufficiente a sé stessa», ma vita in degenerazione. Questa corruzione è stata definita «valore» dagli uomini; esaltata e offerta come luce a innumerevoli generazioni, ad un intero ciclo storico che dura tuttora: solo la catarsi nichilista potrà mettervi fine.

Il nichilismo nietzschiano significa: morire alla volontà d’illusione e crearsi un varco aperto alla nuda realtà, colta nella sua natura tragica e «a-provvidenziale». È il crollo dei «valori»: nessun appoggio esiste più, nessun «perché»; resta solo un vuoto incolmabile, delle forze enormi gravitanti attorno ad oggetti che non esistono più e, come realtà unica, una durata senza più nessuno scopo, senza nessun risultato, senza nessuna utilità. «Ciò che è, è ciò che non dovrebbe essere e ciò che non dovrebbe essere – il nulla del “valore” – è» – ecco ciò che fremendo riconosce la volontà ottimista.
È allora che si aprono le alternative nietzschiane dei gradi di potenza.
C’è chi non può resistere a questo spettacolo e si chiude in sé stesso. È l’occasione negativa del nichilismo, la vita come disperazione, contraddizione, sofferenza.
C’è chi reagisce e s’impone. Costui, pur affermando l’irrazionalità dell’esistenza, tiene fermo, non crede ai valori, ma vuole i valori. La contraddizione e il limite di una provvidenza nelle cose non lo annienta, ma, al contrario, lo eccita: egli la vuole perché essa lo costringe ad alzarsi in piedi e a farsi promotore e creatore. Egli la vuole perché essa lo giustifica. Le anime di questa specie riconoscono il mondo dell’illusione come mondo d’illusione: esso non esiste, ma deve esistere: la realtà che lo contraddice deve trasformarsi in esso senza residui, deve realizzarlo attraverso l’azione che intraprenderanno loro, i Titani: perché è questa la condizione alla quale essi acconsentono di vivere. «Dio non esiste – che l’individuo lo crei dunque facendosi Dio» – è la conoscenza che nasce.
Uccidere questo «altro». Non lasciarsi sfuggire questa possibilità. Divenire capaci di non accettare Dio e di vergognarsi di non averlo mai voluto. Non volere più il bene, il razionale, l’eterno, il giusto. Sussistere in un mondo che si è rivelato privo di senso, di legge, di scopo, abbandonato a sé stesso, contraddittorio, gonfio e in lotta con sé stesso. E volere questo mondo così com’è. Dunque non volere un mondo diverso da quello che è, ma volerlo così com’è – assolutamente, infinitamente. È la misura suprema della forza al di qua della verità stessa dei Titani, la liberazione dionisiaca.
Cosicché: potenza di occuparsi di tutto, di volere intrepidamente tutto ciò che è negazione, tragedia, illogico nell’esistenza, allo scopo di rendere quest’ultima assolutamente immanente, al fine di poter disconoscere un «altro» nel quale essa trova la sua giustificazione, allo scopo di poter fare dell’Io – di questo Io – un centro spaventoso di responsabilità cosmica – in una parola: per uccidere Dio e liberare il mondo da Dio. È questa la prova suprema.
Dio, l’universale, l’Essere necessario sono concepiti come valori inferiori nei confronti dell’individuale che la possibilità, la duttilità, la potenza dei contrari determina; come del passato («È possibile? Ancora egli non sa che Dio è morto!»), come qualche cosa che si è lasciato indietro, che si è superato, che procede dall’individuo e che riguardo all’individuo e al suo mondo, impasto di luce e di tenebre, si trova nel rapporto del potenziale rispetto a ciò che è in atto. Questi valori non possono dunque suscitare nostalgia se non nell’individuo che fallisce e degenera: è questo il presupposto elementare della dottrina nietzschiana, ma è anche la saggezza del «mito» di tutta una tradizione iniziatica di Oriente e d’Occidente.

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Nascita dell’individuo. Caduta. Apollo e Dioniso. Conferma. Vibrante e risuonante nella luce universale, l’uomo nella innocenza favolosa dell’Eden era immortale e felice. In lui fioriva l’«Albero della Vita», e lui stesso era questa vita luminosa.
Ma ecco il «Mysterium Magnum» (Böhme), ecco emergere e imporsi un tema inaudito: la volontà di dominare la Vita, di sorpassare l’Essere per la potenza del Sì e del No. È l’«Albero del Bene e del Male». Per esso l’uomo si strappa dall’Albero della Vita, e sul crollo di tutto un mondo, il valore supremo si erge folgorante: la legge di colui che – secondo un logos ermetico – è superiore agli stessi Dèi, così come alla natura immortale, alla quale gli Dèi sono legati, egli stringe nella sua potenza anche la natura mortale, con l’infinito il finito, con l’affermazione la negazione, e così è lo Spirito, l’Autarchia.
Ma per compiere questo atto l’uomo non è sufficiente: egli fu preso da un terrore dal quale fu travolto e infranto. Come una lampada sotto una luce troppo intensa, come un circuito sotto un potenziale troppo alto, le essenze si frantumarono e fallirono; questa è «la colpa» e «la caduta». Allora, scatenate da questo terrore, le potenze spirituali che dovevano essere serve, si precipitarono e si solidificarono sotto forma di esistenze oggettive, autonome e fatali. Divenuta sofferente, estranea e fuggente a sé stessa, la potenza si trasformò in mondo fisico, l’«identico» si fece «altro», la libertà – questo àpice vertiginoso dove si sarebbe instaurata la gloria di una esistenza più alta di Dio – divenne la contingenza e la follia indomabile dei fenomeni, tra i quali erra l’uomo, ombra timorosa e miserabile di sé stesso. È questa la maledizione lanciata dal Dio ucciso contro colui che fu incapace di assumerne l’eredità.
Apollo sviluppa questo venir meno alla potenza assoluta. Nella sua funzione elementare è la volontà che si libera di sé stessa e, proiettandosi verso l’esterno, vive non più come volontà, ma come occhio e come forma – come visione, rappresentazione, conoscenza. È appunto il demiurgo del mondo oggettivo, il fondamento della categoria dello spazio. Lo spazio, come pura forma dell’«esser fuori», di «essere altro» dalle cose, che muoiono di fronte alla volontà e sono vissute sotto la specie di immagini e di visività – è l’oggettivazione primordiale della paura, della volontà in degenerazione: la visione di una cosa è la paura e la sofferenza per una cosa. E la legge della divisibilità e della molteplicità all’infinito, reggendo tutto ciò che è spaziale, conferma questo senso che è giusto attribuire allo spazio, perché essa riflette giustamente la perdita di ogni tensione da dove si disgrega, si disperde e si atomizza l’unità dell’atto.
Ma come l’occhio non ha coscienza di sé stesso che in funzione di ciò che vede, l’essenza individuale, quando la funzione apollinea dello spazio la rende oggettiva e esteriore a sé stessa, è assolutamente dipendente: è un «essere che si appoggia», che richiede qualche cosa d’altro per la sua persuasione.
Questo bisogno di appoggio genera il limite, si oggettiva nel limite: la natura tangibile, solida, consistente di ciò che gli uomini chiamano «reale», ne è l’incorporazione, quasi una sincope della paura che ferma e sospende l’essere insufficiente al limite dell’abisso della potenza dionisiaca. Si può dunque definirla il «fatto» determinato da questa paura, di cui lo spazio è l’«atto».

Un caso particolare del limite si trova nella legge. Mentre colui che «è legge a sé stesso» non ha nessun timore dell’infinito, del caos, sentendo vivere al suo interno la propria natura più profonda di «essere, impastato di libertà», colui che sbaglia ha orrore dell’infinito, lo sfugge e cerca nella legge, nel prevedibile e nell’ordinato un succedaneo della certezza e del possesso dal quale è decaduto. La scienza positiva e la morale sono i prodotti tipici di questa direzione.
La terza creatura di Apollo è la finalità. Per un Dio i «fini» non possono avere alcun senso, poiché nulla esiste al di fuori di lui da cui poter attingere una norma o un impulso di movimento; il buono, il vero, il piacevole, il giusto, si identificano in lui con ciò che vuole, semplicemente nella misura in cui lo vuole. E ciò che si definisce la «ragion sufficiente» della sua affermazione è l’affermazione che si concepisce da sé stessa, senza appoggio né passività alcuna.
Al contrario, gli esseri estranei a sé stessi hanno bisogno, per agire, di una correlazione, di un movente della loro azione; o, per esprimersi più esattamente, dell’illusione che la loro azione abbia un movente. L’io in realtà non vuole mai una cosa perché la considera giusta o razionale, ma la trova razionale o giusta semplicemente perché la vuole; ma egli ha paura di calarsi a questa profondità in cui il volere si afferma nella sua purezza. Ed ecco che la prudenza apollinea preserverebbe l’uomo dalle vertigini che gli causerebbero ogni evento senza ragione né scopo, scaturito in una pura folgorazione; e dal medesimo gesto che aveva liberato la volontà in visivité, la saggezza apollinea, attraverso le categorie di causalità e di ragion sufficiente, fa apparire le affermazioni profonde dell’io sotto forma di utilità pratica, di motivazioni ideali e morali, attraverso le quali si trovano giustificate, rinforzate di un senso e di un valore a cui da sole non sanno sottrarsi.
Così l’intera vita degli uomini acquisisce il significato di una fuga dal centro, di una volontà di stordirsi e di ignorare il fuoco che arde in loro e che non sanno sopportare. Fuori dall’essere, essi moltiplicano disperatamente le illusioni ed erigono una piramide di idoli: è l’origine della società, delle moralità, delle utilità, del regno degli dèi: fantasmi della ragione per supplire all’assenza della ragione universale, a cui l’uomo è morto – «macchie luminose in soccorso dell’occhio offeso per aver fissato l’orrore delle tenebre».

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Ora poiché l’«altro», l’oggetto, la causa, la ragione non esistono in sé, giacché non sono che delle apparizioni simboliche della volontà deficiente a sé stessa, quando questa richiede a qualche cosa d’«altro» la sua conferma, non riesce in realtà che a confermare la sua insufficienza. Così come essa vaga, simile a colui che inseguirebbe la sua ombra, eternamente assetata ed eternamente delusa, sempre sul punto di creare e divorare delle forme che «sono e non sono». Così la solidità delle «cose reali», i limiti apollinei sono ambigui – esse si sottraggono a ogni tentativo, e il punto di consistenza che lusinga il desiderio, non appena si crede di raggiungerlo, si sposta verso un «altro» più lontano, verso un futuro.
Da ciò, di là dallo spazio, una nuova creatura apollinea: il tempo, la legge di un divenire per generazione e dissoluzione – prolungato indefinitamente, perché un solo istante d’arresto, un solo istante in cui cessasse di agire, di parlare, di desiderare, basterebbe affinché l’uomo sentisse tutto crollare e perché lui stesso cadesse folgorato dalla fiamma terribile dell’ecpirosi cosmica.
È per questo che la sua sicurezza fra le cose, le forme, gli intrecci di idoli e di entusiasmi resta spaventevole e spettrale come quella di un sonnambulo che cammina sull’orlo di un abisso.
Pertanto questo mondo può non essere l’istanza ultima. In effetti, poiché le sue radici non si immergono in un altro – in una fatalità trascendente – ma nell’Io, e che solo l’Io ne è responsabile, ne risulta la possibilità immanente per l’Io di operare la risoluzione di questo mondo. Così accanto alle «acque che straripano», accanto alle numerose persone che compongono gli esseri sofferenti, passivi, ebbri – soli in un mondo dove non c’è più Dio – ci furono e ci sono degli uomini che hanno tutt’altro sangue e tutt’altra nobiltà. Di là da tutto ciò che per gli uomini è valore e non-valore, essi lavorano alla «Grande Opera» con un’arte sottile, inflessibile, distinta: essi costruiscono il «secondo Albero della Vita»; essi preparano la redenzione dalla «caduta» attraverso una volontà che sia sufficiente allo scopo, cioè una volontà che vuole questa caduta fino in fondo senza terrore e senza sofferenza. È da costoro che procede la Sapienza dei Misteri, la grande tradizione delle Scienze ermetiche e magiche. E il loro Dio è Dioniso.

Osar strappare i veli sotto i quali Apollo nasconde la realtà originaria; osar trascendere la forma per mettersi in contatto con l’«atrocità» originaria di un mondo in cui il «bene» e il «male», il «divino» e «l’umano», il «razionale» e l’«irrazionale», il «giusto» e l’«ingiusto» non hanno più alcun senso, poiché è solamente potenza, potenza nuda, libera, fiammeggiante; osare questo e non essere inghiottiti nell’abisso senza fondo, ma poterlo dominare in sé e non essere più superati, ma superanti, realizzare il «piacere indomabile di vivere tragicamente» – infinitamente sé stesso di là da sé stesso – questa è la prova di Dioniso, da cui ogni volontà che voglia veramente scampare al «Dio della Terra» deve avere la sua consacrazione.
Saper portare all’àpice tutto quello da cui il terrore primordiale è esasperato, tutto quello che il nostro essere naturale e istintivo disperatamente non vuole; saper rompere il limite e scavare sempre più in profondità, dovunque, il senso dell’abisso vertiginoso – e consistere nel trapasso, sussistere là dove gli altri cadrebbero folgorati «per aver fissato Dio», questo è il metodo.
E qui, non c’è che un solo ostacolo: la paura. Vinta essa, Apollo è vinto. Allora, in un istante senza durata, come dei cristalli di ghiaccio posti a contatto con blocchi di un metallo incandescente, la pellicola a protezione delle forme, dei nomi, di tutta l’esteriorità mentale e passionale svanisce, muore, si ripiega in sé stessa. Una grande aurora sorge, una superiore levità; in mezzo, un corpo intessuto di luce; poi, lentamente, una realtà nuova, «non più macchiata dallo spirito», trasformata. Ancora più in fondo i «cieli crollano» e si rivela il tragico primordiale di un caos ardente dove, in un lampeggiamento, si coglie il valore individuale, il possesso assoluto come potenza cosmica di affermazione e di negazione.
Quanto al metodo (iniziatico), prima di tutto conviene mostrare l’errore di coloro che si basano sulla conoscenza e la contemplazione. Se il mondo dell’oggettività ha le sue radici in una potenza che, sofferente, lascia, si abbandona e diviene estranea a sé stessa, questa direzione degenerescente trova nella contemplazione non la sua risoluzione, ma una conferma e un’ulteriore affermazione. Nell’uomo che «contempla», che, distaccato da tutto, è pura conoscenza, puro occhio, pura trasparenza, si ha la vittoria completa dell’illusione apollinea, il limite dell’astrazione e della sconfitta che condurrebbe al Nulla assoluto se essa si realizzasse veramente. Il metodo vero prevede al contrario che si riconduca lentamente, inflessibilmente l’Io al centro della potenza da cui si è discostato; che lo si restituisca a una immanenza assoluta e sufficiente, che non lascia più nessun posto da guardare, da contemplare, da amare, ma solamente un essere in una spaventosa purità. Pertanto: non si tratta di liberarsi o di scaricarsi dalle cose, ma di farsene carico e di sopportarle fino a sprofondare in esse, di volerle assolutamente e di condurre poi la stessa volontà a eccedere sé stessa. È questa la «liberazione» unica e che non lascia nulla di residuo.
«Volere assolutamente e spingere poi questa volontà a eccedere sé stessa» è un momento di crisi e di crollo per qualsiasi forma di ogni legge. Occorre perciò denunciare l’errore di quanti pensano che lungo il percorso verso la realizzazione ci sia in generale qualche cosa che si possa rispettare. In particolare: che ogni morale abbia un valore diverso da quello di una disciplina per rendersi sempre meglio temprato, più duro, più padrone di sé, epperò sempre più immorale (capace di fare qualunque cosa, decisamente, senza paura né rimorso). Che si sappia: si tratta di infrangere non solamente la legge esteriore, ma, soprattutto, la legge interiore; bisogna uccidere non il Dio-feticcio dei templi, ma il «Dio in noi», la «coscienza», la «legge morale e dello spirito». Colui che si arresterebbe davanti a qualsiasi cosa di «sacro» o di «umano», sappia dunque che è ancora un servo di Apollo, che ancora ha paura e che il limite da lui raggiunto – che lo voglia o no – non è quello della Magia, ma della religione, della specie del Cristo. Gli occorre, al contrario, scatenarsi, togliersi ogni terraferma da sotto ai piedi; solo allora potrà penetrare la dottrina nietzschiana, così come l’abbiamo esposta, che si identifica con quella della alta iniziazione.

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Che non si tema dunque di definire il delitto (nel senso tedesco di «verbrechen», dove «ver» rinforza il senso di «brechen»-spezzare) l’atto per eccellenza. Il misfatto, l’infrazione dell’ordine è una necessità per chi anela alla potenza titanica. Questo, naturalmente, non in relazione all’essere che soccombe e che in sé stesso, misera cosa del mondo esteriore, non rappresenta nulla; ma nella misura in cui ci si senta in un tale essere, di modo che l’atto sia vissuto come una crudeltà esercitata dall’io sull’io stesso, come una infrazione della mia legge interiore fondamentale. L’uomo che volle divenire Dio – dice Novalis – peccò. Di fatto si può chiamare peccato solo un’azione che si ha paura di compiere, della quale non ci si sente di sopportare il peso. Ma una colpa attiva, positiva, voluta, una colpa che «tiene fermo» non è più di un uomo, ma di un dio.
È qui che si rivela il senso occulto di antichi riti magici accompagnati da sacrifici umani. Si pensi a quale parossismo di folgorazione doveva sentirsi il sacrificatore per il quale la vittima non era solamente sé stessa, ma la divinità stessa. E tuttavia, il suo atto terribile, sacrilego, doveva abbatterla, affinché, superiore alla maledizione e alla catastrofe, l’Assoluto si liberasse e passasse in lui e nella comunità che in lui magicamente convergeva. Questo valore di una crudeltà metafisica contro sé stesso, del resto, può riaffermarsi per tutto ciò che è corruzione cosciente e ragionata, ma essa trova la sua esaltazione ulteriore in un ordine più intimo e più sottile. È qui che possono trovare posto le discipline di mortificazione, di rinuncia e di umiliazione, fino a che non si arrivi alla sfera dell’«opus esotericum» propriamente detta.

Qui il compito diviene assolutamente positivo – diremmo quasi: chirurgico. Si tratta di una scienza consacrata che, pur essendo precisa, rigorosa, obiettiva, sperimentale, indipendente da ogni credenza particolare, da qualsiasi scuola o fede umana allo stesso livello delle scienze empiriche, ha tuttavia per oggetto l’innalzamento dell’Io di là dallo stato umano di esistenza così come pure al di là di ogni limite di spazio e di tempo.
Questa scienza circola in una tradizione teurgica ed ermetica, essa si riflette attraverso le vite dei Santi e dei grandi fondatori di religioni, essa si riafferma infine nelle prime certezze della metafisica moderna – ed è in essa soltanto che quanti sono stati «morsi dal Serpente», che sono stati consacrati dal Fuoco della Saggezza dei «Cacciatori dei Draghi» e dei Dominatori degli dèi, possono evitare di essere alla fine frantumati come avvenne a Nietzsche, a Weininger, a Michelstaedter, a Braun.
In questo campo si prolunga, fredda, implacabile, la lotta contro Apollo, l’opera di reintegrazione e di conferma. L’astrazione della «forma» diviene qui, per esempio, l’astrazione reale inerente alla potenza di «vedere senza la vista», di abolire il limite e il sostegno che rappresenta la visività di una cosa per mettersi con intrepidezza in rapporto diretto con le esistenze vertiginose, senza fondo, che ne costituiscono la natura reale. L’atto tragico del sacrificatore si trasporta in un piano intimo; non cerca più un’altra via, ma diventa il modo in base al quale la vita organica è avvinta alla sua radice profonda, strappata da ogni appoggio, sottratta alla sua natura impastata di necessità, sospesa, rovesciata, trascinata di là da sé lungo una via vertiginosa dove si accende l’ordine delle differenti potenze cosmiche.
È allora che il caos s’identifica con lo splendore supremo, e l’Io con il Centro, essere che arde e fiammeggia, dominatore dei «tre regni».
E «colui che è ciò che vuole» in prossimità di deserti e di soli che splendono sulle atrocità può alla fine lasciar fiorire la bontà, l’ordine, l’armonia, come l’eccesso, come la violazione e, per ciò stesso, l’affermazione ultima di Dioniso, della sua terribile natura.
A partire da questo limite, se ci si volge verso il mondo esterno, potrebbe essere che agli inizi di una nuova èra i «tipi» del «mito» nietzschiano si manifesteranno: gli esseri superbi e pericolosi, vertiginosi come dei mondi risplendenti, potenti, cosmici; coloro nei quali la sofferenza si è trasfigurata in bellezza e in luce, la suprema ebbrezza nella superiorità di una calma dorica, il caos della potenza scatenata e dominatrice, legge assoluta, numero, acciaio. Esseri nuovi, non più umani in una vita solare; una «razza senza re», una razza immortale di Maestri in un mondo che sarà ritornato allo stato libero, essenziale, ipersaturo, allo stato di essere puro, felice e spaventoso sotto i cieli deserti. Centro di una fermezza vertiginosa, nella loro vita, vasta quanto l’oceano, le legioni degli esseri infiniti – degni e indegni, illuminati e brancolanti nel buio – sono attirate irresistibilmente come in un abisso; e in questa via dominatrice essi si bruciano, nella loro giustificazione suprema, al di là di essi stessi, tra le cose che non sono più cose ma simboli, gesti, folgorazioni di «poteri» – dentro grandi onde di luce e di terrore.

(tratto da Julius Evola, Oltre il superuomo. Scritti su Friedrich
Nietzsche 1926-1973, a cura di Giovanni Perez,
Fondazione J. Evola-Pagine, Roma 2006)