Ogni concezione superiore dello Stato ha avuto per costante premessa sociologica, che il fondo del demos, del mondo delle masse, è negativo, irrazionale, materialistico, amorfo. Come dalla sociologia ottimistica nata con l’enciclopedismo e il primo liberalismo, che ha fantasticato circa una natura sostanzialmente buona dell’uomo e del popolo, è derivato il sistema delle democrazie, del potere dal basso e del suffragio universale, epperò lo svuotamento dello Stato di ogni significato spirituale, la sua riduzione a mera struttura rappresentativa amministrativa – dall’opposta concezione che, più che pessimistica, noi chiameremo realistica, ha proceduto l’idea della necessità di una autorità dall’alto come principio di ogni ordine vero, conforme a giustizia, come via a più alte forme di esistenza e di interessi di là dall’esistenza naturalistica, in un sistema di partecipazioni e di gerarchie.
In altri tempi lo stesso cattolicesimo, con la teoria della natura umana fondamentalmente tarata dal peccato originale, fornì armi dottrinali a quest’ultima concezione. Così, utilizzandola, gli ideologi ghibellini, a partire da Dante, rivendicarono a Stato e Impero dignità e finalità sovrannaturali non meno di quelle della Chiesa, perché la loro funzione non sarebbe soltanto secolare; come ordinamenti dall’alto, essi dovrebbero tendere a risollevare nello stesso dominio della vita attiva la natura umana decaduta, preparandola a quella più alta esistenza che coi suoi soli mezzi non saprebbe raggiungere.
Senza questo speciale sfondo teologico, lo stesso tema lo si incontra in altre civiltà: è l’idea più generale che l’essenza di ogni azione civilizzatrice e di ogni alto tipo di umana organizzazione consiste nel dare una forma a ciò che è informe, irrazionale, legato alla natura inferiore, nel chiudere la via a forze che lasciate a sé stesse spingerebbero verso il caos e la distruzione. Tali forze sussistono, frenate, come una latente minaccia, al disotto di tutto ciò che nelle fasi ascendenti delle civiltà si rifà all’opposto, luminoso principio dell’ordine, della sovranità, della forma, della vera giustizia, della spiritualità.
Il mito ha spesso drammatizzato in immagini suggestive questi significati da noi spesso ricordati. Qui ci fermeremo ad un esempio, alla leggenda delle genti di Gog e Magog. Nell’Antico Testamento queste genti ci vengono presentate come orde selvagge che, venute dal fondo dell’Asia, dopo aver seminato la distruzione in Israele, dovevano essere esse stesse sterminate. Ma tale motivo ha avuto più interessanti sviluppi, per aggregazione di temi di diversa origine, in ulteriori leggende, nelle quali è abbastanza chiaro che le genti di Gog e Magog acquistano un significato simbolico e raffigurano meno un popolo estraneo di invasori barbari e distruttori (ciò che il Toynbee chiamerebbe il «proletariato esterno»), quando invece quel substrato oscuro, caotico e demonico cui si è accennato e che, dovunque vi è civiltà, viene frenato e piegato.
Questo significato traspare già nelle redazioni bizantine della leggenda di Alessandro Magno. In esse è Alessandro a sbarrare con una muraglia di bronzo la via alle genti di Gog e Magog. La stessa funzione si trova poi attribuita nell’Islam all’eroe Dhu l-Qurnain, e il motivo riaffiorò nelle forme molteplici della cosiddetta saga imperiale medievale, non senza interferenze con temi provenienti dalle tradizioni nordiche. Così se della misteriosa figura del re sacerdotale Gianni si disse che nel suo regno egli teneva in freno le genti di Gog e Magog, negli Edda, cioè nella mitologia nordico-germanica, si era parlato della razza nemica degli Esseri Elementari e dei Rinthursi, ai quali le vie alla sede del Centro sono sbarrate da una muraglia che essi costantemente cercano di abbattere.
Troviamo infine redazioni cristianizzate della leggenda dove a tutto ciò si associano temi apocalittici: un giorno la muraglia cederà e le genti di Gog e Magog proromperanno – e sarà il tempo dello Anticristo. Inquadramenti fantastici questi, da cui si deve prescindere se si vuol raccogliere il significato più profondo della saga. Un dettaglio interessante è il seguente: l’irruzione avverrà quando le genti di Gog e Magog si accorgeranno che le trombe già suonate da coloro che stavano a guardia al sommo della muraglia protettrice non vibrano più se non per la forza del vento che vi soffia a caso. Fuor dal simbolo: le masse si scateneranno quando si accorgeranno che nulla più sta dietro coloro che rivendicavano per sé un superiore principio di autorità, quando si accorgeranno che vuota, priva di ogni fondamento legittimo è divenuta tale autorità.
Il che, purtroppo, non è un mito fantastico del futuro ma la realtà storica di ieri e di oggi. Già da tempo si sono prodotte quelle che il Guénon ha efficacemente chiamate le fessure o incrinature della Grande Muraglia: non perché la forza che premeva fosse stata più forte o perché si fossero fatti avanti gli esponenti di una nuova legittimità o di un disconosciuto diritto, ma solo per l’indebolimento della struttura difensiva, per la carenza di un superiore tipo umano, per la mancanza di una grande idea. Oggi non saprebbe più dire che cosa ancora resti, della simbolica Muraglia: tanto vasti sono i tratti non incrinati, ma già franati di essa. Prima la rivolta, poi l’avanzata sistematica del mondo delle masse.
Nelle leggende già accennate un motivo spesso aggiungentesi a quello catastrofico e apocalittico riguarda l’ultima battaglia. È la battaglia che combatterà una figura che quasi sarebbe l’antico dominatore e il frenatore risorto o ridestatosi nel punto della massima crisi. Non in tutte le varianti della saga l’esito dell’ultima battaglia è dato come favorevole. Ma anche così, sarebbe molto. Sarebbe già consolante pensare che il tutto non si ridurrà ad un fatale oscuro disfacimento, pensare che di là da questo mondo in convulsioni, di là da conflitti tanto tragici e immani quanto privi di ogni senso profondo, riscaturirà, in un qualche modo, l’antitesi originaria, verrà l’ora delle decisioni sovrane, vi sarà almeno la possibilità di combattere sapendo per che cosa si combatte, per che cosa vale combattere.
(«Il Popolo Italiano», 12 settembre 1957)