Nella sua Vita di Romolo (1, 8) Plutarco scrive: «Roma non avrebbe potuto acquistare tanta potenza se non avesse avuto in qualche modo origine divina, tale da offrire agli occhi degli uomini alcunché di grande e di inesplicabile». Lo stesso ripete Cicerone (Nat. Deor., 11, 38), passando poi (Har. resp., IX, 19) a considerare la civiltà romana come quella che per sapienza sacra superò ogni altra gente o nazione – omnes gentes nationesque superavimus. Per i Romani prischi Sallustio (Cat., 12) ha l’espressione religiosissimi mortales.
Tanto le origini che l’«atmosfera» generale della romanità secondo gli antichi scrittori nostri retrocedono dunque nello spirituale. Ma, naturalmente, per le persone «serie» d’oggi tutto ciò è «superstizione». I «fatti» son la sola cosa che conti. Essi sezionano la storia con la stessa mano brutale con cui si dissecano i cadaveri. Tutto quel che sfugge loro, non esiste come mito, leggenda, simbolo, non è che «fantasia» e «poesia». Alla stessa guisa un fisiologo chiedeva che, insomma, gli si mostrasse sul tavolo anatomico dove è questa famosa «anima» che si presume per l’uomo.
Nessuna sorpresa, dunque, che verso le leggende tradizionali della nascita di Roma si nutra, se non disprezzo, quella condiscendente tolleranza che si può aver per delle infantili, primitive escogitazioni. E ciò non vale solo per gli esponenti di certa pesante Kultur, ma purtroppo anche per varî ambienti italiani. Presso alla grande celebrazione politico-sociale della data fatidica della nascita dell’Urbe, a tutt’oggi resta insoddisfatta nell’Italia fascista l’esigenza di uno slancio spiritualmente rivoluzionario che restituisca la capacità di vedere là dove pullulano formicalmente laboriosissime indagini eruditiche, archeologiche, filologiche con l’esclusivismo dei loro punti di vista i quali, rispetto a ciò che è spirito, spesso equivalgono solo a quello dell’ignoranza.
Pensar di dire nei limiti di un articolo qualcosa di adeguato circa il significato dei miti delle origini romane sarebbe presuntuoso. Un accenno, tuttavia, nell’occasione dell’attuale celebrazione, è possibile: se non altro, per dare il senso di un metodo, nuovo solo per esser tradizionale, cioè corrispondente all’attitudine dell’uomo antico di fronte al mito. Il mito non è una «invenzione arbitraria». Il mito è la forma in cui si esprime ciò che di supersensibile, di fatidico e di simbolico può esser entrato a far parte viva della storia, tanto da elevarla ad un significato superiore. Come le immagini raccolte dai sensi fisici ci danno la conoscenza della realtà fisica, così le immagini del mito e della leggenda ci danno, per simboli, la conoscenza di quel contenuto superiore. Riportato a tale contenuto, ogni vero simbolo presenta poi un carattere universale: lo si ritrova enigmaticamente in varî tempi e luoghi, e per questo comparare e associare simboli e leggende corrispondenti è la via che conduce alla loro vera comprensione.
Le leggende sulla nascita di Roma condensano una quantità tale di elementi suscettibili appunto di riallacciarsi a significati universali, che per analizzarli e chiarirli occorrerebbe un’opera speciale. Non accenneremo dunque che ad alcuni temi fra i tanti, a quelli più noti: la nascita miracolosa, i «salvati dalle acque», il «lupo», l’«albero», la coppia antagonista dei gemelli.
Il simbolo dell’unione fra un dio e una donna mortale – nel nostro caso, fra Marte e Rea-Silvia da cui nascono Romolo e Remo – ricorre in quasi tutte le tradizioni riferentisi alla nascita di «eroi divini». Zeus e Latona generano Apollo, Zeus e Alcmena generano Eracle. Analoga origine fra i nordici è attribuita alla stirpe eroica dei Wölsungen, cui appartiene Sigfrido. Nell’antica tradizione egizia ogni re sacrale era concepito come generato da un dio unitosi con la regina – e qui viene in risalto il senso del mito, inquantoché non si pensava ad una nascita miracolosa senza ausilio di uomo, ma la generazione da parte di un dio voleva solo indicare che il re, non nella sua parte mortale ma, per dir così, in quella eterna e «fatidica», era una specie di incarnazione di un determinato elemento supernaturale che veniva a definirlo. Nel caso di Roma, tale elemento è Marte, cioè la trasposizione divina del principio di una virilità guerriera. Una tale forza o «influenza spirituale» sta dunque alle origini della Città Eterna (in alcune leggende la stessa Roma è direttamente concepita come «figlia» di Marte), associata a chi può esser custode della sacra fiamma della vita – simbolicamente: una vestale.
I gemelli Romolo e Remo sono abbandonati alle acque e salvati dalle acque. Ecco di nuovo un tema universale: Mosè è salvato dalle acque, Gesù cammina sulle acque, l’eroe indo-ariano Karna è lasciato in un canestro sul fiume ed è salvato dalle acque, il tipo dell’asceta, nei Veda, è definito «l’essere sommo che sta sulle acque» e così via. Tutto ciò si riconnette ad un simbolismo preciso: le acque tradizionalmente han sempre raffigurato la «corrente del divenire», cioè l’elemento della vita mortale, contingente, instabile, inconsistente, passionale. Preso dalle acque è l’uomo volgare. Salvato dalle acque – o capace di non affondare nelle acque – è il rigenerato, l’uomo superiore: il veggente o l’eroe, l’asceta o il profeta. Nel mito romano questo simbolo è dunque un nuovo segno per l’elemento «divino» dei fondatori di Roma.
I gemelli trovan rifugio presso il fico Ruminal e sono nutriti da una lupa. Già il nome Ruminal contiene l’idea di nutrire: l’attributo di Ruminus, riferito a Giove, nell’antica lingua latina designava la sua qualità di «nutritore». Ma l’albero in genere nelle tradizioni più antiche dei culti indoeuropei è simbolo della vita universale, è l’albero del mondo o albero cosmico, il quale – appunto come «fico indico» – nella tradizione indo-ariana vien raffigurato capovolto ad esprimere che le sue radici son «nei cieli»: mentre l’idea di un mistico nutrimento che vien dall’albero ad eroi è un tema ricorrentissimo (Giasone, Eracle, Gilgamesh, Odino, ecc.), oltre, poi, ad essere nota a tutti l’allegoria evangelica di Gesù che maledice – di nuovo – il fico che non reca frutti. Per i gemelli noi abbiamo dunque l’idea latente di un nutrimento soprannaturale da parte dell’albero, oltreché della Lupa.
La Lupa, poi, ci riporta a qualcosa di ambiguo. Un Luciano e un Giuliano imperatore ci ricordano che nel mondo classico per via dell’assonanza fra le due parole (lykos, lupo; lyké, luce) l’idea di lupo e l’idea di luce venivano non di rado associate. Il Lupo quale simbolo ci appare dunque nel doppio aspetto di una natura feroce e selvaggia e di una natura luminosa: duplicità che effettivamente si ritrova nella preistoria non solo ellenica, ma anche celtica. Se da una parte il «lupo» si riconnetteva ad Apollo, cioè al dio solare dell’età aurea che Virgilio assocerà alla stessa grandezza romana, d’altra parte nell’Edda l’«età del lupo» equivale all’età oscura, all’età della rivolta di forze selvagge e elementari contro gli «eroi divini».
Ora, questa dualità latente nel principio che ha nutrito i due gemelli può dirsi che, alla fine, corrisponda alla stessa dualità Romolo-Remo. Come gli altri già accennati, così pure il tema di un unico principio da cui si differenzia una antitesi figurata dall’antagonismo di due fratellini o gemelli o, in genere, di una coppia, trova anche altrove corrispondenze e invero in relazione frequente con momenti particolarmente significativi per le origini di una data civiltà o religione. Ricorderemo solo che, per esempio, nella tradizione egizia Osiride e Set son due fratelli – talvolta gemelli – che incarnano l’uno la potenza luminosa del sole, l’altro un principio oscuro, la generazione del quale è quella dei cosiddetti «figli della rivolta impotente». Qualcosa di singolarmente simile non appare anche nella leggenda romana? Romolo è colui che traccia il contorno della città nel senso di un rito sacro e di un simbolico principio di limite, di ordine, di legge, avendo ricevuto il diritto di porre il suo nome alla città dall’apparizione del numero solare, dei dodici avvoltoi. Remo è invece colui che oltraggia tale limite, e per questo viene punito, ed è anche colui che, di contro a Romolo, per monte ha l’Aventino, il monte che accoglierà la plebe in rivolta, il monte sacro non alle superiori divinità virili del cielo, ma a quelle femminili della terra, il monte ove gli schiavi fuggitivi possono anche trovar immunità e dove essi celebrano prevalentemente le loro feste promiscue in antitesi con i culti severi e chiari del patriziato.
Ciò che «positivamente» non sarebbe che una brutale favola di fratricidio, invero assai poco gloriosa per le origini di Roma, a tale stregua ci appare di un alto significato. Il trionfo di Romolo, la morte di Remo è in realtà il primo episodio di una lotta drammatica, esteriore e interiore, spirituale e sociale, in parte conosciuta, in parte racchiusa in simboli ancor muti, attraverso la quale Roma sorse gradatamente nel mondo appunto come affermazione trionfale universale di un principio di luce e di ordine. E la leggenda finale di Romolo divinificato, «restituito dalla terra al cielo dopo che per mezzo del fuoco folgorante fu distrutta la parte mortale del corpo di lui» ci parla di una realtà che, svincolata dalla persona e dal simbolo, non fu una volta, ma sarà sempre, e sempre assisterà, nella sua grandezza di là dalla storia, la razza risorta che sappia rievocarne il «mistero».
(«Il Corriere Padano», 21 aprile 1934, ora in Julius Evola,
I testi del «Corriere Padano», a cura di Giovanni Damiano,
Edizioni di Ar, Padova 2002)