L’idea imperiale

Nel n. 3 di Antieuropa Antonio Bruers[1] rileva che a proposito di “impero” e “imperialismo”, “esistono in Italia persone o gruppi che di quel sostantivo e di quell’aggettivo hanno fatto abuso”, adoperandoli “senza preparazione spirituale, senza adeguata responsabilità”. Ben detto. Ma ciò di cui il Bruers non si sarà certamente reso conto all’atto di scrivere queste parole, è che esse, anzitutto, possono applicarsi proprio a ciò che egli poi passa a esporre sotto il titolo: Il nostro Imperialismo. E perché conveniamo con lui nell’opportunità di “distinguere l’uso dall’abuso”, non riteniamo inutile mettere alcune cose a posto: tenendo a premettere che la precisazione non prenderà le mosse da un imperialismo che a sua volta sia “il nostro”, ma dall’idea dell’impero quale è in sé stessa, secondo il suo senso primordiale e tradizionale, che naturalmente non può e non deve aver nulla a che fare con le varie “riduzioni” moderne. E i nostri lettori sanno già l’estensione che noi diamo al termine “moderno”, per cui esso riprende anche quei punti di riferimento ai quali lo stesso Bruers, che, a quel che sembra, oggi vuol fare del “tradizionalismo”, assai presto si arresta.

La prima cosa da mettere in chiaro, è che il concetto dell’impero non deve essere depotenziato in una interpretazione astrattisticamente “formale”. L’imperialismo non può identificarsi al semplice fatto di una egemonia, di un dominio, di una espansione, quale che sia, senza riguardo a ciò che in sede di spirito si realizza per tal mezzo. L’imperialismo non è un “fatto”, è un’idea, un “valore”. Non è una specie di sacco nel quale cacciare ogni sorta di cose, un corpo al quale si può aggiungere un’anima qualsivoglia. Invece, esso è vero, quando la sua realizzazione materiale è strettamente corrispondente a quei significati e a quei valori di vita, che fanno parte appunto dell’idea imperiale, e non di altre idee[2].

È dunque un primo passo falso quello del Bruers, che riduce “l’imperialismo al suo specifico valore di fatto, vero e naturale, il quale per sé stesso non è né buono né cattivo, né giusto né ingiusto come l’acqua, come il fuoco”. “Ridotto” in tal modo, imperialismo non significa più nulla. Si deve negare il nome di impero a ogni egemonia attraverso la quale si realizzi altro che l’idea imperiale; dire che “ogni rivoluzione egualitaria è un nuovo imperialismo che sorge”, è dire che il contenuto dell’impero può anche essere l’antimpero (come nel bolscevismo, nella rivoluzione francese e, come vedremo, nella stessa concezione del Bruers); e questo è veramente un abusare del termine il quale si rende vuoto e astratto, appunto per designare una materialità indifferente a ogni contenuto, epperò capace di assumerne d’ogni specie.

Il Bruers cerca di rimediare alla falsa parata distinguendo tre tipi di imperialismo, a seconda della predominanza di ciascuno di questi tre fattori: 1) le armi, 2) l’economia, 3) lo spirito. Ma con questo le sue idee non si fanno per niente più chiare, e continuano a lasciar trasparire le limitazioni e lo spirito profano della mentalità moderna. In realtà, nessuno dei tre tipi di impero che il Bruers distingue, ritiene nulla dell’idea vera dell’impero.

Quello che anzitutto si può chiamare impero solo per ridere, è l’impero dei mercanti e dei trafficanti, l’impero basato sull’“economia” e quindi sulla potenza commerciale, industriale, produttiva, bancaria. Che questo sia il solo tipo al quale possa giungere l’idea imperiale di coloro che oggi “non si perdono in astrazioni” e “considerano la realtà concreta della politica”, non ci importa proprio nulla. Come alla Venezia e all’Olanda di ieri, così all’Inghilterra e all’America di oggi neghiamo recisamente ogni diritto di comunque rifarsi all’idea, indomabilmente aristocratica e qualitativa, dell’imperialità[3]. Può esser o non esser vero ciò che dice il Bruers: “Il fattore economico, quando non esprima una superiorità spirituale e culturale, decade più o meno rapidamente”. Può darsi che l’avvenire ci dimostri il contrario. In ogni modo, per carità, non si parli d’impero in quei casi. Anche il ridicolo ha i suoi limiti, e la lingua ha tanti vocaboli perché vi sia proprio bisogno di fare violenza ad alcuni di essi.

Passando agli altri due tipi d’impero, ci incontriamo frontalmente con ciò che impedisce al Bruers di penetrare l’essenza della imperialità. Infatti, ecco che da una parte egli ci presenta l’impero militaresco, quello dell’“oppressione tirannica”, dall’altra un impero, di cui ci dice che “l’esempio quasi unico nella storia si trova nella… Chiesa”, e questo sarebbe l’“impero spirituale”.

Noi qui abbiamo da una parte un’arbitraria riduzione materialistica, dall’altra una arbitraria riduzione spiritualistica, le quali si uniscono insieme per celare il senso tradizionale e sacro dell’imperialità. Se noi pensiamo che i moderni al luogo del guerriero non conoscono più che il “soldato”, il militare – o, al più, il conquistatore alla barbara – è evidente l’impossibilità di esaurire l’imperialismo nel dominio e nell’espansione attraverso la pura forza delle armi. Ma se in altri tempi, in tempi di verità e di normalità, il “guerriero” ha significato, come effettivamente significò, una cosa diversa, e soprattutto un significato spirituale, allora si aprono ben altri orizzonti; il riferimento ai quali fa risultare tutto l’errore e tutta l’incoerenza in cui Bruers cade quando, in cerca di un imperialismo spirituale, finisce nella Chiesa; quando introduce nell’ideale imperiale valori assolutamente antimperiali, come quelli della “pietà”, della “pace” e dei vari ingredienti della “grande etica cristiana”, contrapposta con un vietissimo tour de passe al “diritto del più forte” e alla violenza della tirannide.

Il punto centrale è questo: è assolutamente interdetto di comprendere il senso tradizionale dell’imperialità, a chi non conosca che il polo religioso (e per molti ciò poi equivale addirittura a dire “cristiano”) della spiritualità, sì da ridurre alle visioni e ai valori della spiritualità di tipo religioso ogni altra spiritualità. Conosce invece quel senso chi, di là dal mondo religioso, sappia vedere e comprendere la possibilità e la realtà eroica dello spirito. Come già in altra occasione l’abbiamo accennato[4], fin sulle soglie di tempi antichissimi noi troviamo la dualità e l’antagonismo di una tradizione guerriera e di una tradizione sacerdotale. La visione guerriera (eroica) e la visione sacra (sacerdotale) ci appaiono come due significati primordiali irreducibili l’uno all’altro, e sia il mito che la storia ci mostrano la verità dell’una in lotta contro quelle dell’altra non nel senso di un potete temporale, che insorge contro l’autorità spirituale (come l’ha creduto in un recente libro il Guénon[5]), ma nel senso di due autorità parimenti spirituali, che rivendicano ciascuna per sé il supremo diritto.

Come il corpo della spiritualità sacerdotale è la Chiesa, così il corpo della spiritualità guerriera o eroica è l’Impero. E così noi giungiamo al punto fondamentale: l’impero non è dato dal mero fatto di un dominio, ma solo quando questo dominio si attua sullo sfondo di una visione eroico-guerriera dello spirito (ecco il senso della sacrità tradizionale dell’imperatore o del re) e secondo i “valori” deducibili da quest’ultima, che non sono quelli che una spiritualità religiosa (e come nel caso speciale: cristiana o cattolica) può sancire e legittimare. In ogni altro caso, l’impero o è un corpo senz’anima, o è un ente ambiguo, per essere un corpo che non corrisponde alla natura dell’anima che vi dimora contingentemente. Questo secondo, è il caso dell’“impero dello spirito” quale il Bruers lo concepisce e quale vorrebbe farlo inghiottire – a maggior gloria di parte guelfa – all’attuale movimento politico italiano; sulla base del principio che, per esser di Dante, non è meno incoerente: “La fonte dell’impero è la pietà”, il quale poi in lui si associa alle sospettissime e mediocri ideologie del Risorgimento (tipo Gioberti e Romagnosi)[6] non senza un’infusione democratica e giacobina di idee di “giustizia”, di “diritto” e di “fratellanza”.

In ogni modo, circa quella creatura anfibia che è l’“imperialismo cattolico”, presupponendo che cattolicesimo non voglia dire qualcosa di troppo diverso da spirito cristiano, e presupponendo inoltre che non si tratti di imperialismo nel senso puramente astratto di dominio di idee che non dominano anche nessuna unità politica, ciò presupposto, è da dirsi che tale “imperialismo”, in quanto è “cattolico” non è tale, e in tanto è tale, cioè imperialismo, in quanto non è “cattolico”, ossia in quanto si dilontana di fatto dai valori dell’etica cristiana (tipo particolare di un’etica religiosa) per seguire principi, i quali non sono “valore” che nei quadri di una spiritualità e di un’etica guerriere. La logica e la tradizione vogliono che la Chiesa sia una cosa, e l’Impero un’altra; sì che per la forza dello hegeliano Weltgeschichte ist Weltgericht[7], noi vediamo che a malgrado di tutti i suoi tradimenti, mai il cattolicesimo oltre che chiesa, ha saputo essere impero: l’unità di credenza mai ha saputo dar forma anche ad una unità reale, quale p. es. quella dell’impero di Roma; il potere imperiale si mantenne sempre distinto e irriducibile al potere sacerdotale, finché, depauperato d’ogni spiritualità, esso si emancipò nel concetto laico dello stato moderno, mentre la religione sempre più si immiserì in una sopravvivenza estranea alla vita reale. Bisogna dunque riconoscere quale poca “edificazione” possa venirci dal tipo di “impero spirituale” datoci surrettiziamente per esempio del Bruers.

Si può chiedere che cosa, in fondo, distingue l’ideale imperiale dall’ideale religioso. In generale, si può dire questo: il primo si basa sopra una esperienza immanentistica, l’altro sopra una esperienza dualistica dello spirito. Quando non si concepisce iato fra spirito e realtà, né il primo lo si cerca fuori del secondo (“il mio regno non è di questo mondo”[8]), la manifestazione spirituale è altresì quella di una potenza che vince, soggioga e ordina la realtà. L’inseparabilità dell’idea di potenza e dell’idea di spiritualità è il cardine dell’ideale imperiale e guerriero. Presso a questa premessa, l’eroe sta più in alto del santo e dell’asceta, e il trionfo materiale acquista il valore di simbolo di un avvenimento spirituale, di una mistica epifania. Il miracolo dell’impero – in particolare – diviene simbolo e corpo di una rivelazione dello spirito; e l’imperatore appare come un essere sacro e divinificato. Di speciale importanza è l’antica tradizione, che la forza “sacra”, il nimbo di “gloria celeste” che conferisce all’imperatore la sua dignità, lo testimonia con la vittoria: tradizione che ci conduce fino a quella romana, dell’acclamazione dell’imperatore e dell’“apoteosi” del vincitore sul campo di battaglia.

Di tutto questo, il presupposto, che ai civilissimi di oggi sembrerà pura “superstizione”, è che prima di esser vinta materialmente, ogni lotta deve esser vinta misticamente, e che la vittoria rappresenta una irruzione della forza spirituale fra gli elementi della realtà. Non si tratta della divinificazione della forza materiale, ma viceversa: si tratta di una forza divina che trasfigura l’aspetto materiale della forza.

Allora, appare chiaro quanto diverso dovesse essere il significato della guerra, rispetto a quello su cui si allucina l’odierna letteratura tipo Remarque o Barbusse, o a cui batte il ritmo la retorica patriottica e la propaganda “militaristica”[9]. Nell’idea imperiale tradizionale, la guerra è una cosa sacra, un “rito”, non l’“inutile macello” e il “male necessario” dei cattolici. Essa non è un mezzo che, per così dire, mira a eliminare sé stesso, conducendo alla “pace” e stabilendo il “diritto” e la “fraternità universale degli uomini”, come secondo una imbelle ideologia di tipo plebeo che, con la più stridente incongruenza, il Bruers inserisce nel “suo” imperialismo. Nell’ideale imperiale la guerra è invece, in un certo senso, un fine, così come, nella sua purità, può esserlo un “rito”: perché lo stato eroico rinnova la presenza dello spirituale, il quale attraverso la vittoria compie la sua epifania che è in pari tempo principio di una grandezza nel mondo materiale; conseguenziale, tuttavia, ed esteriore, rispetto all’apice interiore raggiunto dal guerriero. Per questo la Bhagavad-gîtâ e il Corano conobbero l’elevazione della guerra a un valore mistico, e mentre la prima insegnò il precetto di combattere mettendo lo scopo nell’azione stessa, di là dalla preoccupazione sia della vittoria che della disfatta, sia del bene proprio che di quello altrui[10], il secondo dette luogo al famoso detto, che “il sangue degli eroi è più vicino a Dio dell’inchiostro dei sapienti e delle preghiere dei devoti”, per non voler poi ricordare il “paradiso è all’ombra delle spade”[11]. In realtà, nei quadri della spiritualità eroica tradizionale (e noi non ci stancheremo mai di sottolineare questo termine, perché con le riduzioni a uso plebeo e patriottico di oggi non vogliamo aver nulla a che fare), il guerriero ha lo stesso ufficio che nei quadri della spiritualità religiosa ha il sacerdote. Ma mentre questo tende a condurre “questo mondo” all’“altro mondo”, l’eroe tende invece a condurre l’“altro mondo” in “questo mondo” attraverso la manifestazione di una potenza vittoriosa.

E se da queste premesse metafisiche, non comprendendo le quali ogni parlar di “impero” si riduce a vuoti suoni, si volesse trarre un ordine di valori etici, ben sarebbe facile tracciare una serie di opposizioni. A valori di affermazione si oppongono valori di remissione e di dedizione; a valori di gerarchia e di differenza si oppongono valori di eguaglianza e di fraternità. La visione imperiale è intensiva: raccoglie l’anima di una razza e la forza mistica di una tradizione nella realizzazione di un individuo superiore, il Capo, l’Imperatore, il Duce, il quale la possiede, ne dispone, e la testimonia appunto nell’Imperium e nella vittoria. La visione sacerdotale (religiosa) è invece diffusiva e distributiva: diffonde quell’anima e quella forza nella comunità, nell’“ecclesia”, in una vita sociale fraternalistica che non si individua in nessun capo, e fa solo da forza di coesione impersonale della comunità più o meno in “progresso”. Per questo, una visione religiosa conseguente non potrà mai riflettersi che in un ordine democratico e socialistico in senso lato e, se si vuole, mistico (“la comunità dei santi e dei giusti”): mai in un ordine veramente gerarchico (ci si risparmi qui l’analisi del senso delle gerarchie sacerdotali) il quale non si realizza come valore e come un logico risultato, che sulla base di una spiritualità guerriera. Aggiungiamo che le stesse idee di “giustizia” o di “diritto” a seconda dei due punti di riferimento subiscono delle accezioni molto distinte. È certo che il Bruers, a questo proposito, col suo “imperialismo” non si dilontana dalla “tradizione umanistica del Risorgimento” nella quale quelle idee si riducono a ibride creature del connubio fra una “mistica del popolo”, i fermenti della rivoluzione francese e uno “spiritualismo” sospetto. Si tratta, cioè, assai più di alcunché di simile agli “immortali principi” privi di persona e validi in sé stessi, che non a quelli di cui può dar forma a potenza la manifestazione di una individualità superiore e dominatrice o la legge di una élite. E tutto questo ci sembra più che sufficiente per indicare chi è che prima di ogni altro doveva esser ammonito circa l’uso e l’abuso dei termini “impero” e “imperialismo”.

Il Bruers dice che “gli imperi non si costruiscono con programmi a priori ma sono il lento prodotto di generazioni guidate di una classe dirigente (ma quando mai si smetterà questa terminologia da comizio?) di alto sapere, di alta rettitudine, che abbia compiuto in sé stessa l’arduo tirocinio dell’arte del dominare”; cita alcune parole di Gioberti, sulla necessità di ordinare una nuova civiltà prima di ordinare nuovi governi; fa degli accenni sul carattere unitario e universale dell’azione imperiale, accenni che però noi avremmo desiderato che si esplicitassero in ordine alla assoluta incompatibilità che esiste fra l’imperialismo e il nazionalismo. Tutto ciò va bene, e tradisce delle buone intenzioni. Ma anche secondo la morale… cattolica le buone intenzioni non bastano. Bisogna avere il coraggio intellettuale di andare in fondo alle idee, di scrollarsi di dosso i compromessi imposti dalla circostanze e da una cultura e da una mente che non hanno avuto modo di aprirsi direttamente al senso dei valori veramente tradizionali, fuor dalle deviazioni moderne: cosa, quest’ultima, di cui non si può far colpa a nessuno, e quindi nemmeno al Bruers.

Non ci sembra però fuor di luogo una ripresa dello spunto “pedagogico” che già esprimemmo circa la rivista che ora pubblicando lo scritto del Bruers, ne inserisce implicitamente le tesi in una corrente che pretende di esprimere un significato culturale dinanzi all’Europa intera. Non si crede che quando si assume una tale responsabilità, bisogna andare molto, ma molto più cauti? Questo stravagante “nostro imperialismo” che va a finire nella fratellanza universale, nella pace e nella pietà, previo “innesto della propria politica sui bisogni, sulle aspirazioni e sulle rivendicazioni (!!!) della masse”; questo imperialismo che non sa nulla della spiritualità e della luce della nostra antica tradizione eroica; questo imperialismo antiaristocratico, che va a finire fra le braccia della Chiesa, ci sembra che non può fare che una ben singolare e inedificante impressione a chi, stando fuori, in Antieuropa abbia sperato di trovare fondatezza e coerenza di un qualche principio: come noi stessi avremmo desiderato[12].

(La Torre, n. 5, 1° aprile 1930)


[1] Vicecancelliere dell’Accademia d’Italia e Segretario del Vittoriale degli Italiani, Antonio Bruers (1887-1954), studioso di spiritismo e collaboratore di Luce e Ombra, scrisse su vari quotidiani e periodici, tra cui Il resto del Carlino, La Tribuna, Il Giornale d’Italia, Il popolo d’Italia, Lavoro fascista e Gerarchia. Fautore di un “trascendentalismo italico e cristiano”, sviluppò gli argomenti che gli valsero le critiche di Evola anche nei libri La missione d’Italia nel mondo (1928) e L’Italia e il cattolicismo (1929).

[2] Per rendersi conto di come l’idea di Impero sia centrale in Evola rinviamo il lettore a Julius Evola, Il Federalismo imperiale. Scritti sull’idea di Impero 1926-1953, a cura di Giovanni Perez, Fondazione Evola-Controcorrente, Roma-Napoli 2004.

[3] Quello denunciato in queste pagine è in fondo lo stesso atteggiamento di quei commentatori che oggi apparentano impero americano e impero romano. Cfr. ad esempio, Giovanni Viansino, Impero romano, impero americano. Ideologie e prassi, Punto Rosso, Milano 2005.

[4] Si veda la nota successiva. Le tesi contenute negli articoli citati verranno poi sistematizzate in Rivolta contro il mondo moderno, del 1934.

[5] R. Guénon, Autorité spirituelle et pouvoir temporel, Paris 1929. Su questo punto, vedere gli sviluppi da noi dati nelle riviste Krur, n. 9-10-11 del 1929 (pp. 333, segg.), e Vita Nova, n. 12 del 1929, p. 1003 (N.d.A.).

[6] Sacerdote e teologo, Vincenzo Gioberti (1801-1852) nel 1833 fu costretto, accusato di cospirazionismo politico, a lasciare Torino e trasferirsi dapprima a Parigi e poi a Bruxelles. La sua opera più nota è Del primato morale e civile degli italiani, riferimento imprescindibile del neo-guelfismo risorgimentale. In essa il filosofo riconobbe, sulla scorta del Vico del De antiquissima italorum sapientia, il primato morale degli italiani attribuendolo alla Divina Provvidenza, che ha scelto Roma quale sede della Chiesa. Agli italiani affidava il compito di riconquistare, sotto la guida del Papa, il primato politico. Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) giurista e filosofo, interpretò una nuova filosofia civile atta a scoprire le leggi che determinano lo sviluppo socio-economico, politico e culturale dei popoli. Collaborò al Conciliatore e alla Biblioteca italiana. Imprigionato per cospirazione dopo i moti del 1821, fu Maestro Venerabile di una Loggia Massonica milanese ed ebbe come allievo Carlo Cattaneo.

[7] “La storia del mondo è il tribunale del mondo”, tesi formulata da Schiller e poi ripresa da Hegel.

[8] Giovanni, 18, 36.

[9] Qui Evola si riferisce a Niente di nuovo sul fronte occidentale (1929) di Erich Maria Remarque e a Il fuoco di Henri Barbusse (1916). È da notare, tra l’altro, che le stesse tesi sostenne in quegli anni Ernst Jünger, che nella guerra vedeva un’esperienza interiore la cui essenza risulta ignota tanto alla letteratura pacifista quanto a quella patriottica, in senso esteriore e deteriore. Jünger sviluppò queste idee soprattutto ne L’operaio (1932), che Evola sunteggerà, corredandolo di un gran numero di citazioni, nel suo libro L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, del 1960 (ultima ed. Edizioni Mediterranee, Roma 1998).

[10] “Mettendo al pari piacere e dolore, profitto e perdita, vittoria e sconfitta, armati per la battaglia: in tal modo non avrai colpa” recita la Bhagavad-gîtâ, citata da Evola in Rivolta contro il mondo moderno, p. 165.

[11] Queste tesi saranno sviluppate nella Parte Prima di Rivolta contro il mondo moderno, pp. 161-172.

[12] Evola svilupperà queste tesi nella Parte Prima di Rivolta, ma soprattutto ne Il mistero del Graal e l’idea ghibellina dell’Impero del 1937 (ultima ed. Edizioni Mediterranee, Roma 1994), che uscì all’epoca della guerra d’Etiopia e della proclamazione dell’Impero da parte di Mussolini, specie nella sua introduzione. Cfr. anche Il Graal, simbolo millenario, a cura di Giovanni Sessa, Arkeios, Roma 2019.