Noi antimoderni

Per vie molteplici, oggi si fa sempre più preciso il senso, che una minaccia oscura incombe sull’intera civilizzazione d’Occidente. Nella crisi, investente non questa o quella forma speciale, ma la compagine dell’intero mondo moderno, sembra che si preannuncino i sintomi della fine di un mondo, del tramonto di una cultura.

Un Guénon, mentre analizza il malessere e lo squilibrio propri all’epoca, mostra difatti come le caratteristiche di essa siano proprio quelle dell’“età oscura” o “del ferro”, preconizzata da antiche tradizioni[1]. Uno Spengler indica come oggi sia fatalmente in atto quella legge inflessibile, per cui, come ogni organismo, così ogni civilizzazione ha, dopo il suo sorgere e prosperare, il suo decadere e il suo pietrificarsi in una grandezza barbarica priva di vita[2]. Dopo un Nietzsche[3], un Keyserling[4] e un Kalergi[5] accusano l’“immoralismo” e l’“irrealismo” dell’anima europea, mentre un Benda constata la trahison des clercs[6], l’asservimento delle classi che ebbero il retaggio di una tradizione spirituale, alla passione del temporale e all’odio politico. In realtà, le antiche certezze barcollano dovunque; i principi dovunque sono incerti, le tradizioni sono perdute, gli spiriti sono divisi, e forze oscure, incontrollabili, irrazionali sospingono e travolgono gli uomini e le collettività, giuocandole attraverso le idee, gli interessi e le passioni che esse si illudono di perseguire.

Quella civiltà, di cui il moderno fu sì fiero, e in nome della quale aveva creduto al “mito” del “progresso” e aveva marciato alla conquista del mondo, quella civiltà si trova oggi dinanzi a una specie di riduzione dell’assurdo, di capovolgimento dei valori che essa si era arrogati. Lanciatisi alla conquista della materia, essa non ha conseguito il suo scopo che a prezzo di materializzare lo spirito, di escludere ogni forma superiore di vita, di amalgamare gli individui nella tirannide di organismi collettivi, che quasi diremmo subumani nella loro mancanza di volto, di razionalità, di luce, nella loro soggiacenza a energie che di tempo in tempo, come galvanizzando con una vita momentanea e paurosa dei corpi morti o automatici, li scaglia gli uni contro gli altri.

Il tentativo cristiano di dare all’Occidente una tradizione religiosa, non può che considerarsi fallito. La nostalgia con cui spiriti come un Maritain[7], un Guénon[8], un Berdjajew[9] si volgono al medioevo feudale e cattolico, non dice forse della invalicabile distanza fra i tempi attuali, e quelli, in cui l’Europa si avviò veramente a organizzarsi sotto i due grandi simboli dell’azione e della contemplazione? Che importa che il cristianesimo (senza rendersene conto) abbia servito da veicolo alla trasmissione di una Sapienza trascendente, “anteriore a ogni tempo”, e che la Chiesa in riti, simboli e dogmi ne conservi il deposito, se da tempo nessuna coscienza ormai vi corrisponde[10]? Se il cristianesimo oggi non vale più alle genti che come una piccola fede e una morale che tutti professano e che tutti tradiscono, mediocre e borghese nel cattolicesimo, depotenziata a stimolante di realizzazioni pratiche e di intransigenze sociali nel protestantesimo?

E non è soltanto a questo riguardo che chi parla di tradizione e di ritorno alla tradizione, in realtà sa ancor meno di chi la nega che cosa sia tradizione. Un Massis che innalza il simbolo di una “difesa dell’Occidente”[11], che getta l’allarme contro l’asiatizzazione del mondo latino, in realtà non sa né ciò che è l’Oriente, né che all’Occidente potrebbe valere come principio di rintegrazione; non sa quanto di ciò che egli nega stia in ciò che egli afferma, né quanto di ciò che egli afferma stia in ciò che egli nega. Taciamo poi di tutto quel che da qualche tempo si proclama da noi su tradizioni e tradizionalismo, ora su questa base e ora su quella, chi esaltando una Roma vaticana, chi una Roma massonica, chi una Roma mazziniana e giobertina, innalzando a destra e a manca strani tabù, lanciando attacchi a vuoto, ammannendo con paroloni i pasticci più inverosimili. Qui come altrove, la “confusione delle lingue” è completa; la potenza di schemi, formule e parole che, come gli enti creati della magia, non dipendono più da chi li ha creati, è quasi senza limite.

Né basta. Un informe bisogno di sfuggire alla stretta arimanica del materialismo, non incontrando più quei sostegni che solo nel presupposto di rapporti interiori e viventi erano dati dalle sopravviventi tradizioni, ha generato nella squilibrata anima occidentale una deviazione ancor più pericolosa: quella del neospiritualismo[12].

Dalle varie riviviscenze di un misticismo sospetto all’importazione di dottrine esotiche quanto mai contraffatte; dalla nuovissima superstizione spiritistica all’interesse morboso per i problemi e le complicazioni del subcosciente e della psicanalisi; dall’“intuizionismo” e dal “surrealismo” alle varie forme messianiche e alle mille sette pseudo-religiose e pseudo-occultistiche che pullulano ai margini del protestantesimo: dalle ideologie umanitarie e universalistiche a quelle di una “religione della vita” e di un “superuomismo” che, strano a dirsi, quasi sempre finisce in associazioni di donne e di sub-uomini, da tutte queste forme si palesa un comune significato. È il disfarsi dell’anima europea, è il suo scaricarsi di sé stessa, il suo evadere. Deviata da un insano conato di liberazione, essa si sottrae al reale non per un super-reale, sì invece per un sub-reale e per un pre-reale nel quale il senso dell’individualità si scioglie, e una torbida, estatica coalescenza con forze sub-umane abolisce la legge dell’azione pura e della chiara visione[13].

Tanto poco, quanto ciò contro cui reagisce, un tale spiritualismo costituisce dunque un principio: non è un sintomo di rinascita, sì invece – al pari di quello che già asiatizzò il mondo greco-romano nel periodo alessandrino, e a cui così stranamente rassomiglia – un sintomo di crepuscolo, una esasperazione dello scartare e del desistere nell’universale scompiglio.

* * *

Così, tristi presagi incombono sul mondo occidentale: giacché non si tratta di una contingenza degli ultimi tempi, sì invece della logica conclusione dei principi stessi su cui questa civiltà si è sviluppata. Nell’America – che è la più temibile fra le nuovissime barbarie[14] – non ci si trova forse dinanzi allo sbocco della direzione industriale iniziata dalla “civiltà” europea? E nel bolscevismo – che in un certo modo costituisce una forma diversa dell’identico pericolo[15] – non si palesa forse la statuizione in maschera sociale materialistica di quella mistica della comunità che, attraverso il sovvertimento cristiano, travolse i valori individualistici, gerarchici e imperialisti del mondo greco-romano?

Tutto ciò, ci dice quanto poco sia da sperare circa l’efficacia di una reazione. Ancora una generazione – due al massimo – e ogni possibilità superstite sarà strozzata, e nulla più arresterà questa gran massa oscura che già corre lungo la china: a meno che un rivolgimento brusco, una crisi che squassi radicalmente le fondamenta della civilizzazione moderna venga a ristabilire l’equilibrio, sia pure attraverso qualcosa, che agli occhi dei più varrà come catastrofe.

Possedendo questa persuasione, che compito resta ai pochi che ancora resistono? Non un’azione diretta, ma quell’azione più sconcertante che può esercitare la muta e impassibile presenza di un “convitato di pietra”. Bisogna spezzare i ponti, e con l’aderenza assoluta a significati e a visioni primordiali, quelle che agirono ancor prima che le cause della presente civilizzazione si stabilissero, costituire un polo il quale, se non impedirà a questo mondo di deviati di essere ciò che è, gli impedirà però di affermare l’inesistenza di ogni altro orizzonte, di glorificare sé stesso, di statuire sé stesso a religione, di pensare che ciò che è, è ciò che deve essere e che è bene che sia. Da qui, un punto fermo; da un tale punto, nuovi rapporti, nuove distanze, nuove consapevolezze; da tali consapevolezze, forse – in qualcuno – principi di crisi liberatrici.

È naturale che molti punti a questo proposito vanno precisati e chiariti: al che si volgeranno i nostri articoli successivi. Fin d’ora diciamo che non si tratta di “ritorni”, poiché il riferimento è soprattutto a certi principi e a certi interessi, che essendo al disopra del tempo, hanno (per usare una espressione di Guénon) una permanente attualità. Aver perduto il senso di questa attualità, essersi disciolti nel mito di un puro fluire, di un puro fuggire, di un puro tendere che sospinge sempre più in là la propria meta, di un “processo” sempre impotente a raggiungere un possesso, questa è una delle caratteristiche del mondo, a cui noi antimoderni ci contrapponiamo. Da qui, un limite netto che separa due epoche, non in senso storico, ma piuttosto in senso ideale: e potremmo chiamare l’una tradizionale, l’altra antitradizionale[16].

Riportare al grande respiro della prima, al di là da ogni diversità che la comune opposizione all’altra cancella, è il primo punto. Poi, noi vorremmo più particolarmente far parlare il simbolo più prossimo a noi occidentali: il simbolo dell’Azione, restituito al suo significato integrale e tradizionale, di cui le equivoche “difese dell’Occidente” di oggi potrebbero recare un informe presentimento.

Ma ciò, non prima che il punto fermo sia stabilito; che il senso della distanza sia preciso, sì che appaia la modalità e la natura dei processi, che confermano e fomentano il pervertimento dell’anima europea.

È di questo che avremo dunque a occuparci nel prossimo articolo[17].

(La Torre, 1° febbraio 1930)


[1] Riferimento al primo capitolo de La crisi del mondo moderno di René Guénon, uscito in francese nel 1927 e in italiano dieci anni dopo, per Hoepli, nella traduzione e curatela di Julius Evola (ultima ed. Edizioni Mediterranee, Roma 2015, a cura di Gianfranco de Turris, Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa).

[2] Riferimento a Il tramonto dell’Occidente, edito nel primo dopoguerra, che Evola stesso tradurrà negli anni Cinquanta.

[3] Soprattutto in Genealogia della morale, del 1887 (ultima ed. Adelphi, Milano 2017), e in Al di là del bene e del male, del 1886 (ultima ed. Adelphi, Milano 2015).

[4] In particolare in Presagi di un mondo nuovo. Si può immaginare il destino, del 1926 (ultima ed. Edizioni di Comunità, Roma 2016).

[5] Soprattutto in Idealismo pratico. Il libro da cui è nata la leggenda del “Piano Kalergi”, del 1925 (ultima ed. il Cerchio, Rimini 2018).

[6] Il celebre libro di Julien Benda (1867-1956) uscì nel 1927 (ultima ed. Il tradimento dei chierici, Einaudi, Torino 2012). Nel 1905, tra l’altro, era uscita la prima edizione de L’avenir de l’intelligence di Charles Maurras, testo profetico rispetto al tradimento degli uomini di lettere (ultima ed. Oaks, Milano 2018).

[7] Soprattutto nel suo libro Antimoderne, Édition de la Revue des Jeunes, Paris 1922.

[8] Qui Evola si riferisce al secondo capitolo de La crisi del mondo moderno. Le stesse riserve, tra l’altro, il filosofo muoverà nell’introduzione all’edizione italiana del libro guénoniano.

[9] Soprattutto nel suo libro Nuovo medioevo, del 1923 (ultima ed. Fazi, Roma 2017). Sull’argomento cfr. anche Luca Negri, Il ritorno del Guerin Meschino, Lindau, Torino 2013.

[10] Tra l’altro, lo stesso Guénon (di cui in queste righe viene evocata, ancora una volta, La crisi) era consapevole di queste difficoltà, come emerge ovunque nel suo copioso epistolario.

[11] Tutt’ora inedito in italiano, Défense de l’Occident uscì nel 1927. Firmato da Henri Massis (1886-1970), tra i più interessanti pensatori cattolici del periodo fra le due guerre, il libro coinvolse un po’ tutti gli ambienti culturali del tempo in un importante dibattito sul ruolo dei valori cristiani rispetto alla crisi dell’Occidente e alla riscoperta di filosofie e religioni orientali.

[12] Evola si occuperà dell’argomento soprattutto negli ultimi numeri de La Torre, in articoli che confluiranno, insieme ad altri, nella sua opera Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, uscita per Bocca nel 1932 (ultima ed.: Edizioni Mediterranee, Roma 2008).

[13] È praticamente la tesi fondamentale di Maschera e volto.

[14] Gli interventi evoliani dedicati agli Stati Uniti sono ora raccolti in Civiltà americana, a cura di Alberto Lombardo, Fondazione J. Evola-Controcorrente, Roma-Napoli 2010.

[15] Evola svilupperà queste considerazioni nell’ultimo capitolo di Rivolta contro il mondo moderno, ma se n’era già occupato sulle colonne della Nuova Antologia, nel maggio 1929, all’interno del saggio Americanismo e bolscevismo (ora inserito in Julius Evola, Il ciclo si chiude. Americanismo e bolscevismo 1929-1969, a cura di Gianfranco de Turris, Fondazione J. Evola, Roma 1991).

[16] Anche queste tesi compariranno in Rivolta, di cui costituiranno la struttura.

[17] Articolo tratto, per gentile concessione dell’editore, da Julius Evola, La Torre, Edizioni Mediterranee, Roma 2020.