Sulla milizia quale visione del mondo

Se è certo che la nuova generazione è prevalentemente orientata in senso militare e guerriero, si deve in pari tempo constatare che, nel riguardo, non sempre viene avvertita l’esigenza di integrare tutto ciò che è proprio ad un ordine di semplice disciplina e di addestramento psico-fisico con un ordine superiore, con una visione generale della vita.

L’aspetto etico

Di ciò può avere già un sospetto chi studi le nostre antiche tradizioni, poiché non deve esser certo un caso che esse così spesso abbiano usato un simbolismo tratto dal mondo del combattere, del militare, dell’affermarsi eroicamente per esprimere delle realtà puramente spirituali. Come stratòs, “milizia”, veniva designata nell’orfismo la schiera degli iniziati: miles esprimeva un grado della gerarchia mithriaca; simboli agonali sempre ricorrono nelle figurazioni sacre della romanità classica e si trasmettono, in parte, allo stesso ascetismo cristiano.
Ma qui vogliamo trattar di qualcosa di più preciso che non simili connessioni analogiche, ovvero che non la corrispondente dottrina della “guerra sacra”, su cui, del resto, oltre che nelle nostre opere, anche su queste colonne abbiamo spesso detto. Noi vogliamo restringerci al campo etico e riferirci ad una speciale e centrale attitudine, atta a produrre un mutamento radicale di significato in tutto un mondo di valori, elevandolo ad un piano di virilità, ben staccato da tutto che ciò è borghesismo, umanitarismo, moralismo, fiacco conformismo. Il centro di tale veduta può esser espresso dalla nota formula paolina: Vita est militia super terram. Si tratta di concepire l’esser quaggiù, in forma di uomo, come un esser mandato in missione ovvero in servizio su di un fronte distaccato, in una vicenda, il senso della quale per il singolo può non esser direttamente avvertito (allo stesso modo che chi combatte agli avamposti non può formarsi un’idea precisa del piano d’insieme a cui egli collabora), ma nella quale l’interna nobiltà è sempre misurata dal tener fermo, dal compiere, malgrado tutto, ciò che va compiuto, nel non dubitare né tentennare, nel concepire la fedeltà come qualcosa di più forte che vita o morte.

Il primo risultato di questa veduta è una attitudine affermativa rispetto al mondo: affermazione e, ad un tempo, libertà. Chi è veramente soldato, lo è per natura, ed è quindi tale, perché vuole esserlo: nelle missioni e nei compiti che gli sono dati egli dunque, per così dire, si riconosce. Del pari, colui che concepisce come milizia l’esistenza, sarà quanto mai lontano da considerare il mondo come una valle di lacrime da cui scampare o come una vicenda irrazionale in cui lanciarsi ciecamente o in cui il carpe diem costituisca l’estrema saggezza. Se egli non ignorerà il lato tragico e negativo di tante cose, il suo modo di reagire di fronte ad esse sarà ben diverso da quello di ogni altro. La sensazione, che l’esser qui non è esser propriamente in patria né costituisce, per così dire, la condizione normale: la sensazione, che noi, in fondo, si viene “da lontano”, resterà un elemento fondamentale: che non darà luogo ad evasioni mistiche e a debolezze spirituali, ma varrà invece a sdrammatizzare, relativizzare, riportare a unità superiori di misura e limitare nella loro forza tutto quel che agli altri può sembrare importante e definitivo, a partir dalla morte stessa, e conferirà forza, calma e ampiezza di visione.

L’aspetto sociale

La concezione militare della vita conduce poi ad un senso nuovo della solidarietà sociale e politica. Essa supera ogni umanitarismo e ogni “socialismo”: gli uomini non sono nostri “fratelli” e il “nostro prossimo” è quasi un concetto insolente. La società non è né una creatura di necessità, né qualcosa da giustificarsi o sublimarsi sulla base di un dolciastro amore universale e di un altruismo obbligatorio. Ogni società andrà invece essenzialmente concepita nei termini della solidarietà vigente fra esseri ben distinti e intesi a ben tutelare la dignità della propria personalità, in quanto essi son tuttavia uniti da un’azione comune che li tiene gli uni a lato degli altri e gli uni agli ordini degli altri, senza sentimentalismi, in un maschio cameratismo. Fedeltà e lealtà, con l’etica dell’onore a cui danno luogo, dovranno perciò considerarsi come le vere basi di ogni comunità. Secondo un’antica legislazione indogermanica, l’uccidere non appariva una colpa così grave, quanto il tradire od anche soltanto il mentire. Un’etica guerriera sarebbe condotta più o meno alle stesse vedute; ed essa inclinerà a limitare il principio di solidarietà mediante quello della dignità e dell’affinità. Il soldato può sentirsi camerata solo con quelli che egli stima e che come lui s’intendono a tener fermo nei loro posti: non con coloro che vengon meno, con i deboli, con gli inetti. In più, chi guida, ha il dovere di raccogliere e di portar avanti le forze valide, anziché disperderle in cure o lamenti presso a chi è già caduto, o ha ceduto, o è finito in vie senza uscita.

Senso dello stoicismo

Ma è nel campo di un interiore rafforzamento che le vedute, di cui qui si tratta, sono maggiormente feconde. E qui si entra nell’ambito di un’etica propriamente romana, della quale del resto il lettore dovrebbe già saper qualcosa attraverso quei passi di autori classici, che vengon via via pubblicati sul Diorama. Noi abbiamo già accennato che, nel riguardo, si tratta di un mutamento interno, in virtù del quale le reazioni di fronte a fatti ed esperienze di vita si fanno assolutamente diverse e da negative, come lo sono generalmente, divengono positive e costruttive. La romanità stoica, ci offre, qui, più di un ottimo spunto: a patto che la si conosca quale veramente fu, smettendo le opinioni preconcette volte a far apparire, nello Stoico, solo un essere irrigidito, disseccato e straniato dalla vita, laddove egli molto più spesso ci si presenta come un vero e indomabile affermatore. Che cosa di diverso si può infatti pensare, quando un Seneca afferma esser, l’uomo vero, superiore ad un Dio, poiché mentre questi è preservato per natura dalla sciagura, l’uomo può incontrarla e sfidarla, e dimostrarsi superiore ad essa? O quando egli chiama infelici coloro che mai lo sono stati, giacché così essi mai hanno avuto modo di conoscere e misurare la loro forza? Appunto in questi autori si trovano molti elementi per un’etica guerriera, che rivoluziona dal fondo il moto comune di pensare. Ecco una veduta assai caratteristica, a questo riguardo: chi è inviato in un posto pericoloso, solo se è un vile maledice la sua sorte; se è un’anima eroica, ne è invece orgoglioso, poiché sa che il suo comandante per ogni missione rischiosa e per ogni posto di responsabilità sceglie i più degni e i più forti, lasciando i posti più comodi e sicuri solo a quelli, che egli in fondo non stima.
Lo stesso devesi pensare nei momenti più bui, tragici, sconfortanti della vita: bisogna scoprire in essi sia una occulta provvidenzialità, sia un appello ad una nostra nobiltà e superiorità: «Quale è l’uomo degno di questo nome e del nome di Romano» scrive appunto Seneca, «che non desideri una prova alla sua altezza e non cerchi un compito pericoloso? Per l’uomo forte l’inazione è un supplizio. Vi è un solo spettacolo capace di imporsi perfino all’attenzione di un Dio, ed è quello di un uomo forte alle prese con la cattiva fortuna, specie se egli stesso l’ha sfidata».

È questa una sapienza, del resto, che si riprende da antiche età, innestandosi perfino in una veduta generale della storia del mondo. Se Esiodo, di fronte allo spettacolo dell’età del ferro, dell’età oscura e sconsacrata che si identifica nell’età ultima, esclamava: «Mai fossi nato», un insegnamento proprio alle antiche tradizioni indogermaniche era, che proprio coloro, i quali nella età oscura, malgrado tutto, terranno fermo, potranno conseguire frutti, che raramente chi visse in epoche più propizie, meno dure, poté raggiungere.
E così che la visione della vita come militia dà forma ad una sua etica e ad un preciso atteggiamento interiore suscitatore di forze profonde. Partendo da ciò, venire ad una milizia vera e propria, con le sue discipline e con la sua prontezza ad ogni azione assoluta anche sul piano della lotta materiale, è la direzione giusta e la via che va seguita. Bisogna sentirsi “milite” nello spirito ed aver conformato in modo corrispondente il proprio sentire, per poterlo essere perfettamente anche in senso materiale e per evitare i pericoli che altrimenti, nel senso di un indurimento materialistico e di una fisicizzazione, possono venire dalla militarizzazione sul piano soltanto esteirore: laddove, nel primo caso, ogni forma esteriore può facilmente divenire simbolo e strumento di significati propriamente spirituali.
Un’etica fascista, se pensata a fondo, non può volgere che in questo senso. Il “disprezzo della vita comoda” è il punto di partenza. Resta da porre più in alto che possibile, al di sopra di tutto ciò che può parlar solo al sentimento, al di sopra di ogni mito, gli ulteriori punti di riferimento.
Se le ultime due fasi del processo involutivo che ha condotto alla decadenza moderna sono contrassegnate la prima dalla borghesizzazione, e la seconda dalla collettivizzazione non solo dell’idea di Stato, ma altresì di ogni valore e della stessa concezione dell’etica, superare tutto ciò e riaffermare una visione “guerriera” della vita nel senso integrale ora accennato costituisce indubbiamente la premessa di ogni ricostruzione: poiché quando il mondo delle masse e quello della mediocrità materialistica e sentimentalistica borghese avrà luogo, di nuovo, ad un mondo di “guerrieri”, si sarà fatto l’essenziale per propiziare il passaggio ad un ordine ancor più alto, che è quello stesso della vera spiritualità tradizionale.

(Diorama filosofico, 30 maggio 1937)